La carenza di abitazioni adeguate nelle città è un problema globale, ancor più grave nei paesi in via di sviluppo, dove il processo di urbanizzazione è sempre più preoccupante.
I dati dell’Onu mostrano che oltre 1 miliardo di persone vive in baraccopoli o insediamenti informali, l’80% delle quali (800 milioni) in Africa e in Asia.
Si prevede che, a livello globale, 3 miliardi di persone cercheranno alloggi adeguati e convenienti entro il 2030. I governi, in particolare nei paesi in via di sviluppo, stanno rispondendo con programmi di alloggi di massa costruiti con fondi statali o in partenariato con costruttori privati.
I progetti di alloggi di massa implementati in Europa dopo la seconda guerra mondiale sono stati peraltro emulati in molti paesi africani, latinoamericani e asiatici.
In Etiopia, l’organizzazione tedesca di aiuti Giz ha realizzato con successo questo modello nei primi anni 2000 e ha fornito supporto tecnico e assistenza diretta per la sua implementazione.
Di conseguenza, il paese, al tempo del defunto primo ministro Meles Zenawi, aveva lanciato uno dei più grandi programmi abitativi nell’Africa subsahariana.
Nell’ambito di tale programma di sviluppo integrato (Integrated Housing Development Program” – IHDP), lanciato nel 2006, circa mezzo milione di unità abitative sono state costruite a livello nazionale e cedute a chi oggi le occupa. Si stima che 2 milioni di persone si siano trasferite in tali abitazioni, concentrate in estesi condomini.
Nella sola capitale Addis Abeba, un altro milione di persone si sono registrate per trovare una casa. Il governo sovvenziona in modo consistente i vari programmi, abbassando il prezzo dell’acquisto.
Isolamento e frammentazione
Uno studio realizzato negli anni 2021-2022 dal ricercatore Hone Mandefro Belaye per l’Università di Concordia, ha preso in esame il tessuto sociale dei residenti che si erano trasferiti in nuovi quartieri sviluppati nell’ambito del programma abitativo nell’area di Lemi-Kura, alla periferia di Addis Abeba.
La ricerca si focalizza su continuità e trasformazione nelle relazioni tra vicini di casa, ora che dalle tradizionali abitazioni ad un piano si sono trasferiti in condomini di dieci e più piani.
E l’indagine ha identificato numerosi problemi: anzitutto, il nuovo stile abitativo sta creando comunità umane deboli e frammentate.
La maggior parte delle case si trova infatti lontano dal centro città, dove sono concentrate le opportunità di impiego, cosicché i residenti trascorrono più tempo e denaro viaggiando per arrivare al lavoro, a scapito di un tempo molto ridotto per interagire e stabilire relazioni con i vicini.
Anche un dettagliato articolo pubblicato nel 2021 dal Journal of Urban History, evidenzia che la progettazione di questi edifici “ha sottovalutato o addirittura trascurato il ruolo delle pratiche comuni”.
Piano edilizio insufficiente
In secondo luogo, nonostante la costruzione di migliaia di nuovi condomini, questi non sono mai abbastanza per rispondere alle necessità reali. Infatti, il mezzo milione di unità costruite, coprono solo minimamente il piano governativo, che prevede la costruzione di 5 milioni e mezzo di case entro il 2030.
In terzo luogo, a causa dell’evoluzione politica e delle situazioni di conflitto interetnico con le nocive conseguenze sulle finanze del paese, il programma ha subito un forte rallentamento. Il governo ha infatti interrotto le registrazioni e in lista di attesa ci sono già diverse centinaia di migliaia di persone registrate in precedenza.
Infine, gli aumenti dei prezzi delle unità abitative, a causa del crescente costo dei materiali e della corruzione, stanno rendendo le unità inaccessibili per i residenti a basso e medio reddito. Altri hanno denunciato la scarsa qualità delle case, suggerendo che i condomini potrebbero essere considerati bassifondi.
Il programma integrato di sviluppo abitativo promuove la proprietà individuale della casa. Finora sono stati costruiti oltre 650 nuovi quartieri nella sola Addis Abeba, che consistono in blocchi di edifici solitamente a cinque piani.
La lotteria degli alloggi
Per avere diritto alla registrazione nel programma, le persone devono essere prive di casa o appartenere alle categorie sociali a basso o medio reddito, sebbene non venga applicata alcuna categoria di reddito definita.
Una volta registrate, le persone devono pagare come acconto il 10, il 20 o il 40% del prezzo delle unità (a seconda della categoria abitativa per cui si registrano). La percentuale rimanente è finanziata attraverso un mutuo della banca commerciale di proprietà statale.
Il governo sovvenziona il programma fornendo terreni e coprendo i costi dell’amministrazione del programma e dello sviluppo delle infrastrutture, come strade, acqua, elettricità e reti fognarie.
Le unità sono assegnate attraverso un sistema di lotteria. Le persone che eseguono il pagamento vengono inserite in un sistema digitale che fa emergere i vincitori.
In teoria questo dovrebbe evitare abusi, tuttavia si sono verificati molti casi di corruzione e manomissione del sistema. Lo scorso anno, ad esempio, gli amministratori di Addis Abeba annullarono la lotteria di 25mila unità e accusarono i funzionari di corruzione.
Da un lato molta gente apprezza le nuove case in quanto viveva in precedenza in condizioni di precarietà, stipata in luoghi simili a baraccopoli. Non avevano strutture né servizi, mentre le nuove abitazioni sono dotate di cucina, bagno, stanze, elettricità e acqua.
Quartieri ghetto
Nonostante il miglioramento della qualità di vita, tuttavia, molti residenti vivono in stato di solitudine e di isolamento, sia nella capitale che in altre città.
Un’indagine condotta in alcuni condomini ha mostrato che solo il 7% dei residenti si sente sicuro nel nuovo quartiere, mentre il 95% si sentiva più sicuro nel luogo di provenienza. Inoltre, solo il 34% afferma di fidarsi dei vicini, mentre il 97% dei residenti si fidava dei vicini nel luogo di provenienza.
Si sa bene, peraltro, che i programmi di alloggi di massa e standardizzati sono oggi poco ambiti in Occidente, in quanto hanno aggravato la disuguaglianza e l’esclusione sociale.
(Quello che avete letto è una sintesi dell’articolo pubblicato da The Conversation sotto licenza Creative Commons)