La rotta balcanica che unisce più percorsi di migrazione attraversando oramai da decenni la penisola è molto più di una semplice rotta.
È l’oggettiva raffigurazione del fallimento di una politica europea che ha scelto come principale criterio di gestione delle migrazioni quello dei respingimenti, dei rimpatri, degli hotspot che non eliminano i flussi ma li congestionano, li disumanizzano, li esternalizzano versando denaro, costruendo muri, fili spinati e campi di concentramento legalizzati.
Un criterio che ha trasformato nel tempo quella che era una regione di transito, i paesi balcanici, in una macro regione di destinazione, di parcheggio umano; e quelle che erano ambizioni di ingresso in Europa da parte di questi stati, in scambi ricattatori.
Dopo che dal 2015 si è assistito all’inasprirsi del conflitto siriano, che ha visto bussare alla porta dell’Ue oltre un milione di persone richiedenti asilo, quella stessa Unione ha pensato di potenziare la propria polizia di frontiera e di firmare un controverso accordo con la Turchia (marzo 2016), ritenendo che fosse sufficiente pagare per bloccare le partenze delle persone migranti, per chiudere ermeticamente un corridoio, quello balcanico, che vedeva aumentare gli attraversamenti di profughi e richiedenti capaci ogni volta di rivedere le rotte pur di superare quella Fortezza.
E siccome l’irrigidimento delle frontiere influenza non solo la mobilità delle persone migranti in transito, ma anche quella dei cittadini e delle cittadine locali, la gestione dei passaggi frontalieri è diventata una formula del dare avere per diversi stati balcanici.
Una contrattazione di muri e contenimenti in cambio di accordi di facilitazione dei visti Schengen più semplici da ottenere, di procedure più veloci a costi ridotti.
La possibilità di viaggiare senza visto, barattata con riammissioni, respingimenti, che ha determinato una crescita delle stesse emigrazioni economiche da parte di questi paesi.
Un accordo ghigliottina da poter utilizzare, da entrambe le parti, come formula di ricatto.
Politiche che modificano i tragitti, che rendono sempre più lunghi, crudeli e difficoltosi i passaggi di frontiere sempre più militarizzate e murate, dove sempre più spesso si assiste non solo a forme di violenza, ma anche a pushback, ossia a respingimenti collettivi con deportazioni forzate, di fatto proibite dal diritto internazionale ed europeo, ma documentate nel tempo da più organizzazioni non governative che vengono osteggiate e criminalizzate proprio per il loro lavoro di denuncia.
Azioni che si avvalgono sempre più di Frontex, l’agenzia di frontiera europea che registra, a partire dal 2005, una notevole espansione, passando da una dotazione finanziaria di 6,3 milioni di euro e un personale di appena 1.400 unità, a 543 milioni nel 2021, e destinata a raggiungere nel 2027 i 900 milioni e 10mila persone operative.