La Tunisia è una pentola a pressione che ribolle, apparentemente pronta ad esplodere ma ancora in stand by.
L’inflazione è salita al 9,2%. La povertà aumenta, il tasso di disoccupazione ha superato il 16% (dati dell’istituto di statistica tunisino) e nelle miniere del bacino di Gafsa «non si estrae più fosfato, tanto che il paese importa questo minerale dall’Algeria».
La povertà avanza e i tunisini fuggono prendendo la via del mare: il consenso generale per Kais Saied però non crolla e si attesta al 52%.
Il presidente-despota da quattro anni tiene botta e investe più in politiche securitarie e repressive che non in opere pubbliche e sanità.
A parlarne sono alcuni analisti e studiosi del mondo tunisino, come Stefano Pontiggia, antropologo e ricercatore all’università di Padova, autore nel 2017 del volume Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere della Tunisia postrivoluzionaria.
Ma anche giornalisti e attivisti che vivono a Tunisi e da anni si impegnano nella contro-narrazione politica.
«Quando Saied è emerso come candidato politico ed è andato al ballottaggio nel 2019, il suo discorso ha funzionato proprio perché la propaganda elettorale si basava sulla lotta alla corruzione e sulla critica al sistema partitico post-rivoluzionario», spiega Pontiggia.
Non ha mantenuto le promesse però, e il suo pugno di ferro ha lasciato il paese in stato di choc e attesa.
«Al di là dell’abituale logorrea del presidente Saied, è la legge finanziaria del 2023 che cristallizza nei fatti la volontà di investire in politiche securitarie». A denunciarlo sono gli attivisti del sito di notizie indipendenti Nawaat.
L’ultima legge finanziaria 2023 prevede in effetti un aumento del budget destinato al ministero degli interni e a quello della difesa, che vedranno un incremento rispettivamente dell’8% e del 9%.
«Il ministero della difesa fa la parte del leone con un incremento di assunzioni di 4mila e 400 unità, a fronte di un incremento della metà per il ministero dell’istruzione», si legge sul sito web degli attivisti.
«Personalmente faccio fatica a comprendere l’assenza di proteste significative da parte della gente, almeno per quel che riguarda la povertà – argomenta con noi Pontiggia – e a fronte della grave crisi economica. La Tunisia non produce più nulla e non c’è una prospettiva per il futuro».
Gli ultimi dati parlano di un incremento a due cifre dei prezzi al consumo: le uova sono aumentate del 25,6% in un anno, la carne d’agnello e di montone del 31,2%, il pollame del 28% e l’olio alimentare del 23,4%.
La povertà nera, nell’entroterra tunisino – da Kasserine a Sidi Bouzid, le “città martiri” della rivoluzione del 2011 – dilaga.
Nella Tunisia profonda «la gente deve mendicare per mangiare», conferma lo studioso.
«Continuano le piccole e diffuse manifestazioni di protesta a Gafsa, nel bacino minerario, ma niente di eclatante. Eppure i beni primari nei supermercati scarseggiano e persiste un consistente problema idrico legato all’accesso all’acqua», dice.
«Le dinamiche che avevo intercettato quando sono stato a lungo a Redeyef, per la mia ricerca sul bacino minerario, si sono esacerbate», prosegue Pontiggia. «Il governatorato di Gafsa è sempre stato marginalizzato ma ora è tagliato fuori da tutto e gli ex operai delle miniere se ne vanno».
I numeri parlano di 10-15mila persone che si sono spostate recentemente dalla Tunisia e vengono rimpiazzate da immigrati provenienti dall’Africa subsahariana. I più poveri tra i poveri, malvisti e perseguitati.
«La cosa veramente interessante è che le partenze dalla Tunisia, clandestine e illegali, hanno superato anche quelle dalla Libia», dice Pontiggia.
In politica economica tuttavia Saied non si discosta molto dai suoi predecessori: sostanzialmente liberista, si rifiuta di accettare ulteriori prestiti da parte del Fondo monetario internazionale (che aveva accordato ad ottobre scorso un nuovo prestito di quasi 2 miliardi di dollari), poiché richiederebbero delle condizionalità e un aumento di debito pubblico che il paese non può oggettivamente permettersi.
Sul versante dei diritti e delle libertà il precipizio è molto ripido: «La classe politica tunisina fa resistenza, ma non ha l’appoggio delle masse, perché la gente è stanca della politica», ci dice Chiara Sebastiani, sociologa e autrice di diversi volumi sulla realtà tunisina pre e post Ben Ali. «Tant’è vero che molti parlamentari dell’opposizione, compreso Rached Ghannouchi leader di Ennahdha, sono finiti in carcere».
I giovani, in generale, non amano militare apertamente nei partiti, stare nei meccanismi istituzionali. «La politica è un fake», ci sentiamo ripetere.
«Più di tre anni dopo l’elezione di Saied i tunisini sono lontani dal veder realizzate le aspirazioni della rivoluzione», dice Rihab Boukhayatia, giornalista di Nawaat.
Ramy Sghayer, originario di Gafsa, 36 anni, laureato in lettere, scrittore e piccolo imprenditore di Tunisi, ci parla di resistenza culturale da parte di una élite tunisina:
«Ho fatto la rivoluzione nel 2011 e non penso affatto che sia tutto perduto; so però che ad ogni rivoluzione fa sempre seguito una contro-rivoluzione. Siamo nel momento buio della contro-rivoluzione e la viviamo».
La società civile tunisina in generale non vuole una guerra civile, ci dice Chiara Sebastiani: «Penso che in questo contesto nessuno sia disposto a rischiare di nuovo la vita senza neanche sapere bene perché».
«Noi che osserviamo dall’esterno guardiamo alla Tunisia con apprensione perché alcune cose istintivamente ci parlano di Ben Ali (il dittatore deposto nel 2011 con l’inizio delle Primavere arabe, ndr) – argomenta ancora Pontiggia – ma bisogna stare attenti a non etichettare tutto come un “benalismo 2.0”».
Il rischio è quello di fare “orientalismo” e «di voler ad ogni costo spiegare agli altri i rischi che stanno correndo e come dovrebbero gestire le proprie dinamiche interne».
«La verità è che la Tunisia ha i suoi tempi e le sue dinamiche e un suo livello di guardia», dicono gli attivisti con i quali abbiamo parlato. E il processo democratico è pieno di ostacoli, lungo e non lineare.