Ha 71 anni, è al potere dall’indipendenza, nel 2011, e non ha alcuna intenzione di mollare. Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, si presenterà come candidato alla presidenza alle elezioni che, ha confermato, si svolgeranno entro dicembre 2024.
Elezioni storiche in quanto le prime del giovane Stato africano. Ma in pochi confidano sulla possibilità che il voto si tenga come promesso.
Ex comandante della guerriglia SPLM, di etnia dinka, Kiir è stato il primo ed unico presidente della nazione da quando l’ha guidata all’indipendenza dal Sudan nel 2011.
Il voto era allora stato fissato nel 2015, ma due anni prima scoppiò il conflitto civile che vide opporsi il suo esercito e quello del rivale Riek Machar, della comunità etnica nuer, a capo della branca scissionista dell’SPLM (SPLM-IO).
La guerra durò cinque anni, causò la morte di almeno 400mila persone, con 2,3 milioni di rifugiati nei paesi circostanti e di sfollati interni che ancora non hanno potuto far ritorno alle loro terre.
La firma dell’accordo di pace del settembre 2018 e la successiva creazione di un governo transitorio di unità nazionale, non ha però messo fine definitivamente alle violenze, che sono proseguite fino ai giorni nostri, con 2.240 persone uccise solo lo scorso anno, secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project, e gravi crimini compiuti contro i civili, certificati ad aprile da un rapporto della Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani in Sud Sudan.
Con rinnovate tensioni tra Kiir e Machar e all’interno dello stesso movimento di quest’ultimo, sfociate nella scissione dell’SPLM-IO, la destituzione di Machar e nella sostituzione, lo scorso marzo da parte di Kiir, di ministri chiave, tra i quali la ministra della difesa Angelina Teny, moglie di Machar.
Il periodo di transizione doveva concludersi con le elezioni nel febbraio 2023, ma il governo non ha rispettato le disposizioni chiave dell’accordo di pace, inclusa la stesura di una Costituzione e la completa assimilazione degli ex combattenti in un esercito unificato. E, dunque, ha deciso di prendersi altro tempo e di spostare il voto all’anno successivo.
L’allarme dei vescovi
Il contesto politico-militare del paese descrive, insomma, una nazione più che mai fragile e instabile, perennemente a rischio di una ripresa del conflitto, guidata da una leadership che non sembra intenzionata a mollare la sua presa sul potere.
Una situazione fin dall’inizio e in diverse occasioni denunciata dalla Chiesa cattolica locale e da papa Francesco, che nell’aprile 2019 aveva invitato in Vaticano i due contendenti, recandosi poi personalmente nel paese lo scorso febbraio.
A tornare a parlare sono stati, il 30 giugno scorso, i vescovi cattolici del Sud Sudan che chiedono un riesame dell’accordo di pace, avvertendo che il patto si basa su un modello imperfetto.
«Non ci sarà mai pace in Sud Sudan finché la comunità internazionale insisterà su questo tipo di modello», hanno affermato i vescovi, guidati dall’arcivescovo di Juba, Stephen Ameyu Martin Mulla.
I prelati affermano che l’intesa che ha posto fine alla guerra civile e permesso alle due parti di condividere il potere, non è riuscita a risolvere le cause primarie del conflitto e ha invece consentito ai leader politici di estendere il proprio potere a scapito della popolazione e dell’intera nazione.
L’appello è sostenuto anche dal segretario generale del Consiglio africano dei leader religiosi (African Council of Religious Leaders) e direttore esecutivo del Consiglio interreligioso del Kenya (Interreligious Council of Kenya), Francis Kuria Kagema.
«L’accordo transitorio è mantenuto in vigore dal ricatto di una rinnovata violenza diffusa. Questo è il motivo per cui i conflitti ribollenti sono consentiti», ha dichiarato.
Intanto più di 8 milioni di sudsudanesi necessitano di aiuti alimentari, secondo stime delle Nazioni Unite. Ed è all’infinita sofferenza di questo popolo che guardano i vescovi, denunciando uccisioni, saccheggi, stupri e la negazione dell’accesso ai servizi essenziali, tra cui acqua, elettricità e cibo, da parte delle predatorie élite politico-militari al potere. (MT)