Si sta alzando un’onda di indignazione. Patrick Zaki è stato condannato a 3 anni al termine dell’udienza a Mansura, a circa 130 km dal Cairo. Tutti a strapparsi le vesti. Ora. Ma pochi quelli che si sono assunti responsabilità, soprattutto politiche, in questi lunghissimi 1.257 giorni dall’arresto di Patrick. Mentre molti, come vedremo, hanno fatto sfoggio di un eccesso di realismo machiavellico.
Si è chiuso oggi il processo allo studente egiziano, con una sentenza che lascia parenti e osservatori internazionali perplessi (usando un eufemismo).
La sentenza è inappellabile perché commutata da una corte di emergenza. «Ma chiederemo al governatore militare di annullarla o di rifare il processo, come è avvenuto nel caso di Ahmed Samir Santawy» ha detto all’Ansa Hoda Nasrallah, uno dei legali del ricercatore.
Zaki è stato portato via dall’aula tra le grida della madre e della fidanzata. «Il peggiore degli scenari possibili», commenta Amnesty international.
Calcolando la custodia cautelare, già scontata, si tratta di scontare per Patrick altri 14 mesi. Magari nelle celle degli oppositori politici di Tora, il supercarcere del Cairo.
Dopo i 22 mesi di custodia cautelare in prigione, Zaki era a piede libero dal dicembre 2021.
La sua colpa? Troppo interesse per i diritti civili
La sua colpa, presunta, è di aver mostrato troppo interesse per i diritti civili. Una sola l’accusa, per la quale è stato poi condannato: aver scritto un articolo nel 2019 per la rivista Darraj, in cui Patrick parlava della discriminazione subìta da un militare di religione cristiana-copta, morto nel Sinai, dove lo stato egiziano conduce da anni quella che definisce una campagna anti terrorismo. Zaki scrive che per lui non c’è stato alcun onore né alcuna sepoltura di stato.
I cristiani copti rappresentano la più importante minoranza cristiana in Medioriente, cui appartiene circa il 15% degli oltre 100 milioni di egiziani.
Per il regime del despota al-Sisi ciò che ha scritto lo studente dell’Alma Mater di Bologna è «propaganda tendenziosa alimentata con false informazioni». La sentenza di oggi era già scritta.
I suoi studi sulle tematiche di genere
Ricercatore sulle tematiche relative ai generi era giunto in Italia, a Bologna nell’agosto del 2019. Voleva frequentare un master in “Studi di genere”. È, infatti, un attivista per i diritti femminili Lgbtq+ e dei cristiani in Egitto.
Si è laureato, anche se a distanza, due settimana fa. Perché dal 7 febbraio del 2020 non è più uscito dai confini egiziani.
L’inizio dell’incubo
Il suo incubo, infatti, inizia proprio quel giorno. Prende il volo da Bologna per Il Cairo. Vuole andare a trovare la sua famiglia. Un viaggio di 5 giorni offerto dai genitori che non lo vedevano da 6 mesi. Ad attenderlo all’aeroporto, tuttavia, si presentano alcuni agenti dei servizi segreti civili egiziani.
Sono le 4 del mattino (ora del Cairo). Da quel momento lo studente scompare dai radar per ricomparire due giorni dopo, quando le autorità di Mansour, città originaria dei genitori, ufficializzano il suo arresto.
Ora è uno delle decine di migliaia di detenuti politici del generale golpista Abdel Fattah al-Sisi, che usa il carcere come tortura. Patrick, nel suo curriculum, ha pure la partecipazione allo staff di Khaled Ali, candidato contro al-Sisi alle presidenziali del 2018. Anche questo suo impegno non lo agevola.
L’orologio si azzera
Dal suo arresto, l’orologio si annulla. Passano i giorni: prima 15, poi altri 15, poi 45. E non si sa nulla di lui. Arriva il Covid. Altre le nostre preoccupazioni. E chi se ne frega di un ragazzo egiziano che se ne sta in carcere senza processo.
Durante il periodo pre-processuale, tra febbraio 2020 e settembre 2021, Zaki subisce lo stillicidio di 18 udienze (slittate peraltro per 9 volte) in cui ogni volta vengono decisi prolungamenti della sua custodia cautelare, trascorsa quasi tutta nel carcere di Tora.
Il 14 settembre del 2021 compare per la prima volta davanti ai giudici: era da 19 mesi in cella. Ne deve aspettare altri 3 (8 dicembre) per essere liberato. Una liberazione dimezzata, tuttavia, perché non cadono le accuse contro di lui. Viene inserito in una black list di coloro che non possono lasciare il paese.
La mobilitazione
Una parte della società civile italiana si mobilita: prima la sua Università, poi il comune di Bologna, altre città, e anche organizzazioni come Amnesty international. Una mobilitazione di piazza.
Pure David Sassoli, all’epoca presidente del parlamento di Strasburgo, fa sua la causa, prende le difese di Zaki, accusando il regime egiziano.
Negli ambienti diplomatici c’è fibrillazione. C’è in ballo, infatti, anche la nostra reputazione a livello internazionale, già messa sotto i tacchi con il caso Regeni.
Draghi Ponzio Pilato
Ma i governi che si succedono fanno orecchie da mercante. Mercoledì 7 luglio 2022 la Camera approva all’unanimità (soltanto Fratelli d’Italia si astiene) una mozione per chiedere al governo di dare la cittadinanza italiana a Patrick. Il voto della Camera segue un’altra mozione approvata dal Senato ad aprile, che chiedeva allo stesso modo che a Zaki fosse data la cittadinanza. Una decisione che avrebbe aumentato all’ennesima potenza la pressione sull’Egitto.
Le due mozioni, tuttavia, non sono vincolanti per il governo, che decide autonomamente quali iniziative intraprendere. Soprattutto, se intraprenderle.
E benché il governo abbia più volte ribadito il suo impegno per la liberazione di Zaki, l’allora presidente del consiglio, Mario Draghi, veste i panni di Ponzio Pilato. Intervistato sul tema, se la cava affermando che si tratta solo di un’iniziativa parlamentare, declinando, di fatto, le sollecitazioni di Camera e Senato.
In aprile aveva definito dittatore il presidente turco Erdogan. Evidentemente ci sono dittatori e dittatori per l’ex presidente della Banca centrale europea.
Armi e gas
Nel frattempo viene consegnata la seconda fregata al Cairo. La commessa del secolo: 1,2miliardi di euro. Ma gli accordi tra Roma e Il Cairo prevedono una vendita per oltre 9 miliardi di sistemi militari italiani all’Egitto. E poi in quel paese ci sono gli investimenti miliardari di Eni in gas (soprattutto) e petrolio. Si chiama real politik in salsa italiana.
Meloni e Tajani, parole al vento
A sua volta, il governo Meloni si avventura in acrobazie linguistiche per nascondere l’assoluta inerzia.
A gennaio 2023 il ministro degli esteri Antonio Tajani, rientrando dal Cairo, afferma: «Al-Sisi mi ha rassicurato sui casi Regeni e Zaki». Parole al vento.
La presidente del consiglio incontra al-Sisi nel novembre del 2022. Chiede attenzione ai casi Regeni e Zaki. Il Faraone annuisce. E passa oltre.
Oggi, in una nota ufficiale, Meloni se la cava con: «Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia». Dichiarazione vuota. Se non fosse il preludio a una possibile grazia che il dittatore del Cairo potrebbe concedere a Zaki, come lasciano filtrare fonti dall’esecutivo. Il 19 luglio è la festa di El Am El Hijri, l’egira di Maometto, l’inizio del calendario islamico. Il 23 luglio si celebra il giorno della rivoluzione del 1952. Si confida in un atto di clemenza in occasione di queste feste. Speranze flebili.
C’è poi il tema immigrazione, a cui “tiene così tanto” il governo italiano: il 20% delle persone arrivate è di nazionalità egiziana. Mantenere buoni rapporti con Il Cairo, magari riempendolo di denaro (vedi la strategia con la Tunisia), sarebbe fondamentale.
L’unica a muoversi concretamente in questi anni per Zaki è la città di Bologna che gli conferisce la cittadinanza onoraria. Seguita poi dal consiglio comunale di Firenze. Iniziative meritorie. Ma poco incisive per togliere il ricercatore da quel pozzo senza fondo in cui l’hanno spinto con brutalità.
Ora tutti a dire che «è una sentenza assurda», che bisogna mobilitarsi, esercitare pressioni sul Faraone. Ma chiacchiere a parte, quali iniziative hanno assunto la politica, le istituzioni italiane in questi 1.257 giorni?
Ingiustizia è fatta. L’udienza è tolta.