Che la polizia angolana usi una violenza sistematica contro i cittadini che, con sempre maggiore frequenza, protestano per le strade e le piazze di tutto il paese non è una novità. Lo scenario negli ultimi anni, e ancora di più dopo la poco trasparente rielezione di João Lourenço dell’MPLA (Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola) alla presidenza della repubblica, è il peggiore dalla fine del conflitto civile nel 2002.
Non esiste una categoria professionale che non sia scesa in piazza e non abbia scioperato: medici, insegnanti, giovani, membri delle organizzazioni non governative, adesso taxisti e cittadini comuni, che schiumano rabbia per il rincaro di gas e benzina, in un paese che è oggi il primo produttore di petrolio dell’Africa.
Se tutto questo non rappresenta una novità, ciò che deve essere inteso come una svolta all’interno del variegato mondo delle lotte anti-governative da parte della locale società civile è la posizione assunta da Amnesty International, e sostenuta da migliaia di militanti, con la parola d’ordine “Viva Amnesty International, viva i diritti umani, viva la democrazia, viva l’Angola”.
Violenza sistematica
L’attenzione di Amnesty International si è concentrata sugli episodi avvenuti durante il giugno scorso. In seguito all’aumento del costo di carburanti e gas, soprattutto nella provincia di Huambo, la repressione da parte della polizia è andata ben oltre limiti accettabili. Il dato certo, confermato da fonti governative, è che 5 manifestanti sono stati uccisi dalle forze dell’ordine, compreso un bambino di 12 anni, e altri 8 feriti gravemente, mentre altri 34 sono stati arrestati per aver partecipato alle manifestazioni di protesta. Tigere Chagutah, direttore di Amnesty International per l’Africa Orientale e Meridionale, ha dichiarato che il ricorso, da parte della polizia, ad armi e gas lacrimogeni per disperdere la folla dovrebbe essere l’ultimo strumento da utilizzare, e comunque sempre ai livelli minimi richiesti dalla situazione contingente.
Atteggiamento simile è stato tenuto in occasione delle proteste, da parte dei rappresentanti delle organizzazioni governative nazionali, che hanno manifestato a Luanda a causa dell’approvazione – per il momento in prima lettura – della polemica legge sull’associazionismo da parte del parlamento angolano, il 25 maggio scorso. Quattro attivisti sono stati imprigionati per tre giorni e rilasciati a condizione di pagare una multa di 50.000 kwanzas (circa 80 dollari). Di fronte a tali fatti, Amnesty International ha promosso una mobilitazione e una petizione che sta riscuotendo ampio successo, diretta a garantire maggiore libertà di espressione e di manifestazione.
La petizione
Ma soprattutto, la petizione intende responsabilizzare il governo rispetto a terribili episodi del recente passato: fra marzo e novembre del 2020, Amnesty International – insieme all’associazione OMUNGA – ha individuato 11 casi di uccisioni di cittadini angolani da parte della polizia, di cui 8 adolescenti fra i 14 e i 17 anni. Fino a oggi, nessun processo è stato mosso contro i poliziotti protagonisti di tali atrocità, regnando sovrana l’impunità. In tal senso, Amnesty International ha lanciato una petizione per riaprire (o aprire ex novo) le indagini e i successivi processi contro i responsabili di queste morti, che tuttavia non hanno fermato la violenza della polizia angolana. Uno degli obiettivi della petizione e di campagne dello stesso segno già programmate è, secondo Paulo Fontes, della direzione portoghese di Amnesty International, svelare all’opinione pubblica internazionale i tratti autoritari del regime di intolleranza di João Lourenço e dell’MPLA, nella speranza che ciò possa determinare un cambiamento di atteggiamento da parte dell’esecutivo. Una speranza che al momento appare lontana, se si pensa che João Lourenço soltanto pochi giorni fa è stato accolto da vari governi, fra cui quello italiano, come una vera e propria star della politica africana.