Il presidente della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi, è consapevole di giocarsi la rielezione se non riesce a dare un qualche segnale “di svolta” alla crisi securitaria che tiene in scacco da trent’anni il nordest del paese.
E così ha utilizzato anche la tribuna delle Nazioni Unite per fare propaganda elettorale. Ha chiesto cioè che il ritiro graduale della Missione Onu in Congo (MONUSCO) avvenga a partire dal dicembre 2023 invece che dal dicembre 2024, come previsto dal Consiglio di sicurezza.
La MONUSCO, in 23 anni di presenza nel territorio, non è riuscita ad arginare i gruppi armati e a riportare stabilità. Questa la ragione principale addotta da Tshisekedi per la richiesta di ritiro anticipato dei 15mila caschi blu presenti in Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri.
Il lavoro della MONUSCO presenta certamente delle crepe, ma la fretta di Tshisekedi è legata al fatto che i congolesi, anche quelli del nordest in balìa dei gruppi armati, vanno a votare il 20 dicembre e negli ultimi anni hanno spesso manifestato contro le truppe ONU.
È appena il caso di ricordare che Tshisekedi nel maggio 2021 ha decretato lo stato d’assedio nell’Ituri e nel Nord Kivu: vuol dire che le istituzioni civili sono sospese e il potere viene esercitato dai militari. Lo stato d’assedio è ancora in vigore e non si sono visti passi in avanti.
Tshisekedi porta anche la responsabilità di aver chiesto alla Comunità economica dell’Africa orientale (EAC) di inviare truppe nel Nord Kivu, per spalleggiare l’esercito congolese. E con lo stesso compito agiscono nell’Ituri reparti dell’esercito ugandese. Risultati non se ne sono visti.
Inoltre, durante il suo mandato, Tshisekedi non è riuscito nemmeno ad arginare l’influenza nel nordest dell’esercito rwandese che sostiene il gruppo ribelle M23 a maggioranza tutsi e si garantisce l’instabilità necessaria per predare i minerali strategici dell’Rd Congo.