Liberi di scegliere se migrare o restare. È questo il tema voluto per la 109esima Giornata mondiale delle persone migranti e rifugiate da parte di papa Francesco. Una ricorrenza istituita dalla chiesa dal 1914. Una domenica, l’ultima del mese di settembre, pensata per soffermarsi sulle realtà che vivono le persone che scelgono o sono costrette a lasciare il loro paese d’origine.
Una scelta, quella di migrare o restare, che non si declina come diritto. A raccontarlo sono i muri e le frontiere, così come le situazioni economiche e ambientali che vivono diversi paesi. Non vi è libertà di movimento per chi nasce in stati il cui passaporto, quando lo si riesce a ottenere, non permette di andar oltre una ventina di paesi altri.
Numeri in continuo aumento nel mondo quelli di chi migra o scappa. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per le persone rifugiate (UNHCR), nel 2022, le persone costrette a lasciare la propria abitazione a causa di persecuzioni, conflitti, violenza, violazioni dei diritti umani o di eventi che hanno a che fare con l’ordine pubblico nel proprio paese sono state quasi 110 milioni. Tra queste, il numero di bambine e bambini è raddoppiato negli ultimi dieci anni.
Solo la guerra in Sudan ha provocato oltre due milioni di sfollati dal 12 aprile di quest’anno. Anche il conflitto in Ucraìna, da cui sono fuggite circa 11 milioni di persone, ha fatto registrare cifre record di persone che hanno lasciato il paese.
Stando sempre ai dati ONU, dalla Repubblica democratica del Congo, dall’Etiopia e dalla Birmania sono fuggite oltre un milione di persone per paese nel 2022. E, se torniamo ai minori, a raccontare un fenomeno in crescita è l’UNICEF che parla di un numero mai toccato prima: 43,3 milioni di bambine e bambini.
Diritto a restare, un diritto precedente
Migrare o restare. Nessuna delle due opzioni pare essere declinabile oggi come diritto di cui avvalersi. Ma se del primo tanto si discute, spesso a colpi di slogan, il secondo, il diritto a restare, Francesco ha tenuto a esplicitarlo meglio, affinché non sia strumentalizzato e ricondotto nel solito refrain “a casa loro”.
Si intende “promuovere una rinnovata riflessione su un diritto non ancora codificato a livello internazionale: il diritto a non dover emigrare, ossia – in altre parole – il diritto a poter rimanere nella propria terra”.
Più in dettaglio, “la natura forzata di molti flussi migratori attuali obbliga a una considerazione attenta delle cause delle migrazioni contemporanee. Il diritto a rimanere è precedente, più profondo e più ampio del diritto a emigrare. Esso include la possibilità di essere partecipi del bene comune, il diritto a vivere in dignità e l’accesso allo sviluppo sostenibile, tutti diritti che dovrebbero essere effettivamente garantiti nelle nazioni d’origine attraverso un esercizio reale di corresponsabilità da parte della comunità internazionale”.
Un diritto che richiama alla responsabilità chi finora ha pensato al proprio interesse, saccheggiando e impoverendo terre nate ricche. Chi, come accade nel continente europeo, stanzia fondi per lo sviluppo di paesi in difficoltà per poi spenderli innalzando muri, fornendo motovedette a guardie costiere che si è provveduto ad addestrare affinché esternalizzino le frontiere, impedendo a chi parte di arrivare.
Così, se l’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani, lo abbiamo oramai imparato a memoria nei suoi due punti: “ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato” e “ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”, Francesco ci ricorda che c’è anche un diritto a risiedere, a stare, rimanere.
Un diritto murato
Quanto sia ostacolato il diritto a migrare è oramai sotto gli occhi di tutti, lo sanno anche i bambini. Tutti i media traboccano di questa evidenza. Evidenza mostrata in maniera inequivocabile dai muri.
Elisabeth Vallet, docente di Geografia all’Università del Québec a Montréal (Canada) e direttrice del Centro di studi geopolitici della cattedra Raoul-Dandurand di studi strategici e diplomatici, nel suo libro Borders, fences and walls: state of insecurity? Racconta che almeno 6 persone su 10 vivono in un paese con un muro di frontiera.
Un documento dell’Europarlamento mostra come l’Europa sia murata in più punti: dalla Bulgaria, che con i suoi 235 chilometri di recinzione si separa dalla Turchia, all’Estonia, il cui muro scorre 104 chilometri lungo il confine con la Russia; dalla Grecia e i suoi 52.5 chilometri con la Turchia e 37 con la Macedonia del Nord, alle più note enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco.
Poi c’è la Francia con la più volte sgomberata Calais che vuole ergersi frontiera con il Regno Unito, e Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Norvegia, Austria, Polonia e Slovenia. E ci sarebbe persino l’Italia se non fosse naufrago il progetto di Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia.
Ma il nostro paese tenta i muri marini, chiamandoli blocchi navali e finanziando accordi con la Libia e la Tunisia, ben noti “paesi sicuri” per essere stati paladini dei diritti umani.
Presidia le frontiere terrestri pensando di poter contenere i transiti o minaccia di aumentare i fallimentari Centri per il rimpatrio, credendo che tanto basti a bloccare chi vuole esercitare il diritto scritto su una Dichiarazione nel 1948 e ancora rimasto su carta.