Arriva proprio oggi, nella Giornata mondiale dell’aborto sicuro, la notizia che Eunice Brookman-Amissah, pionera per la tutela dei diritti riproduttivi delle donne, ha vinto il Right Livelihood Award 2023. La giuria ha affermato che la sua lotta trentennale sul campo ha permesso di aprire la strada “alla liberalizzazione delle leggi sull’aborto e al miglioramento dell’accesso sicuro ad esso”.
Brookman-Amissah, medico ed ex ministra della sanità del Ghana, in tutti questi anni è stata leader e portavoce di attività di advocacy, riunendo medici, avvocati, attivisti in molti paesi dell’Africa per sostenere le riforme delle leggi sull’aborto e consentire alle donne una maggiore tutela sanitaria. Un tema ancora controverso nel continente e su cui spera che, con questo premio, si possa portare nuova attenzione e nuove azioni concrete.
Aborto: tutto tranne che sicuro
In tutta l’Africa, infatti, sono ancora pochissimi i paesi in cui una donna ha diritto ad abortire su richiesta, così pochi che le dita delle mani sono già troppe per contarli. Capo Verde, Sudafrica e Tunisia sono stati pionieri in questa direzione e negli ultimi anni si sono aggiunti Benin, Guinea Bissau, Mozambico e São Tomé e Príncipe.
In tutti gli altri paesi, l’aborto sicuro rimane spesso e volentieri un miraggio. Si calcola che negli stati in cui questo diritto viene riconosciuto, il 90% degli aborti possono essere considerati sicuri. Una percentuale che si riduce al solo 25%, laddove non esiste una legislazione tutelante in merito.
Di fronte a gravidanze indesiderate, stupri e spesso persino gravi malattie, le donne sono costrette a rifugiarsi nella clandestinità, affidandosi a mani spesso completamente impreparate e talvolta anche in malafede. Non c’è alcuna garanzia di sicurezza e le condizioni insalubri e pericolose sono all’ordine del giorno, con un alto rischio di complicazioni gravi o mortali.
Ed è su questo che va messo l’accento: non su questione ideologiche, ma sanitarie.
Anche perché non si parla di numeri bassi: tra il 2010 e il 2014, ogni anno il 15% delle gravidanze in Africa sono finite con un aborto, con un picco del 24% nell’Africa australe. Tradotto in cifre più concrete, si parla di circa 6,2 milioni di aborti che avvengono in Africa ogni anno. Uno studio condotto da Medici senza frontiere lo ha evidenziato chiaramente, con dati allarmanti.
Nella Repubblica Centrafricana, una morte materna su quattro deriva dalle complicazioni di aborti non sicuri. Si parla, in tutta l’Africa, di circa 15mila morti evitabili ogni anno, ovvero circa il 13%, secondo l’OMS, delle morti materne complessive, per un continente che già ne registra il tasso più alto al mondo, ovvero 533 madri che perdono la vita ogni 100mila. Un’emergenza che dovrebbe essere al centro dell’agenda sanitaria e sociale.
C’è poi la questione di che cosa comporta muoversi nell’illegalità. La clandestinità dell’aborto ha dato vita ad un oscuro business che porta molte donne e ragazze a indebitarsi o a finire nel giogo dello strozzinaggio. Le reti criminali sfruttano la domanda di aborti clandestini, imponendo prezzi esorbitanti. Per risparmiare, molte decidono di ricorrere al “migliore offerente”, con conseguenze devastanti a livello fisico e psicologico.
Rigidità e progressi
Nonostante alcuni paesi stiano modernizzando la loro legislazione in merito, ne rimangono molti altri in cui la possibilità non è completata nemmeno per problemi di salute, né della madre, né del feto. Sono Rd Congo, Congo, Egitto, Senegal e Mauritania, per dirne alcuni.
Ma in gran parte del continente, le leggi al riguardo sono radicate in convinzioni religiose e culturali profonde. In molte comunità africane, l’aborto è ancora un tabù assoluto, e le donne che cercano di interrompere una gravidanza spesso affrontano un forte stigma sociale e ostracismo.
C’è però la speranza di stare andando verso un progressivo miglioramento. Nel 2003 ha fatto la storia la firma del cosiddetto Protocollo di Maputo, unico strumento riconosciuto universalmente dall’Unione Africana sui diritti delle donne e che ha aperto la strada, per alcuni stati membri, alla riconsiderazione del diritto d’aborto.
Da allora sette paesi hanno riformato le loro leggi per adeguarsi al protocollo, che ne chiede la legalità almeno nel caso in cui la gravidanza rappresenti una minaccia per la salute fisica, mentale (dettaglio molto importante) e in caso di stupro o incesto.
Le leggi non bastano
E tuttavia, le riforme sono una condizione necessaria ma non sufficiente. Serve l’educazione. Il Ghana è uno dei paesi dell’Africa occidentale con le leggi più progressiste sull’aborto, ma molte ragazze non ne sono a conoscenza, perché la sessualità rimane un tabù, e continuano ad abortire clandestinamente. Si parla di appena 1 donna su 20 che risulta a conoscenza della legislazione in merito. E d’altra parte non sorprende, se si pensa che nel 2014 il Niger ha ritirato dalle scuole un corso sull’educazione sessuale in seguito a grandi proteste da parte di alcune organizzazioni islamiche.
Laddove lo stigma rischia di essere ancora molto forte, il diritto, anche se riconosciuto a livello statale, viene meno. Per questo dà speranza che il lavoro di donne come Eunice Brookman-Amissah venga riconosciuto e premiato. Serve la tutela dello stato, ma serve anche un’operazione culturale, per far sì che, un domani, giornate come questa non siano più necessarie.