Dieci anni alla deriva. Un titolo, quello scelto per il convegno tenutosi stamattina in Senato, eloquente rispetto al messaggio che si vuole lanciare dall’unica iniziativa istituzionale di questa giornata di memoria.
Il governo, assente a Lampedusa, dove in questi giorni si celebra il decennale del naufragio avvenuto la mattina del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita 368 persone migranti, non ha pensato ad alcuna manifestazione nelle sedi parlamentari.
L’iniziativa, promossa da Altreconomia e Rivolti ai Balcani, fortemente voluta dal senatore Tino Magni di Alleanza verdi sinistra, si è svolta come una sorta di viaggio tra le frontiere terrestri e marittime, per arrivare ai Centri per il rimpatrio, panacea governativa alimentata quotidianamente, fino a giungere al tema dell’accoglienza.
Una giornata che non si ferma a celebrare ma si orienta al denunciare, declinando per i vari versanti frontalieri un’informazione finalmente corretta, cui difficilmente si ha accesso quando si trattano tematiche diventate oggetto di strumentalizzazioni che rifuggono la comprensione dei fenomeni migratori.
Una mattinata che restituisce voce ai “transitanti e saltatori di muri”, come dichiara Agostino Zanotti, presidente di Rivolti ai Balcani.
A dare i primi dati è il giornalista di Altreconomia Duccio Facchini che conduce una giornata serrata nei tempi, per l’alto numero degli interventi.
Dal 2013 a oggi si parla di oltre 30mila persone morte o disperse nel mar Mediterraneo e di oltre 145mila respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica (dal 2016 a oggi), composta da diverse aree mafiose finanziate da Europa e Italia da diversi anni.
Via mare
Dieci anni. Un tempo che racconta la storia anche di Medici senza frontiere, il 2013 è infatti l’anno in cui l’organizzazione che ha diversi progetti “a casa loro”, nei paesi di partenza e transito delle persone migranti, decide di dotarsi di una piccola flotta.
A raccontarlo è Juan Matis Gil di Geo Barents: «Noi iniziammo con grande indignazione, ma questa conta mai finita, e mai certa, nel Mediterraneo è continuata senza sosta. Iniziammo con tre barche di soccorso che rispondevano a un mandato chiaro: salvare vite umane. Denunciammo l’impossibilità di arrivare attraverso canali legali, una denuncia diventata un mantra nel tempo. Assistiamo a un retrocedimento continuo oltre che a un aumento degli ostacoli criminalizzanti nei confronti di chi in mare fa soccorso».
E gli ostacoli criminalizzanti, a guardarli, mostrano un crescendo: porti chiusi; accordi con la Libia; riconoscimento di una zona Sar dove respingere legittimamente grazie al contributo normativo ed economico dei governi che si succedono, anche di colore differente; criminalizzazione delle ong; impedimento a soccorrere più di una volta; porti sempre più lontani.
E se gli ostacoli si cerca in qualche modo di dribblarli, per una questione di giustizia e leggi internazionali, si può incorrere nel fermo amministrativo. Così la si smette di “diventare paladini” e si rimane a terra.
«Il cosiddetto decreto Piantedosi nasce sul solco del precedente Lamorgese e ancor prima dei decreti Sicurezza» spiega Lucia Gennari, dell’ASGI, Associazione studi giuridici per l’immigrazione.
«In dieci mesi – prosegue – si registrano otto fermi per sei navi, alcune bloccate più volte. Ogni soccorso è potenzialmente sottoposto a minaccia di sanzioni, che non vengono sempre applicate allo stesso modo. Perché la norma è generica e di interpretazione libera».
Le motivazioni per esser assoggettati a sanzioni sono differenti. Tutte opinabili e soggette a varie interpretazioni.
Una su tutte quella che nella forma si riferisce al soccorso e arrivo rapido al porto. Interpretata come divieto ai soccorsi multipli, cosa impossibile da pensare. Una vera schizofrenia, secondo Gennari. Perché nessuna legge del mare può vietare soccorsi mentre si va verso il porto, così come la mancata rapidità può ovviamente essere giustificata da una motivazione plausibile.
«Era una cosa che non si poteva scrivere» commenta Luca Masera di Resq. «Clamorosamente incostituzionale, a spregio di ogni diritto internazionale. Il problema è che, a seconda delle occasioni, diventa sanzionabile».
Masera mette allarme anche sull’insofferenza verso la magistratura che sanziona. Un caso eclatante fu quello della capitana Carola Rakete, la cui condotta fu ritenuta lecita, ma è visibile anche in questi ultimi giorni con la sentenza della procura di Catania.
«Il controllo della legalità rispetto alla magistratura parte dai temi migranti per poi estendersi ad altre tematiche. Questo deve spaventarci».
E sempre di sbarchi, di cui però si parla molto meno, visto lo sguardo puntato su Lampedusa, parla Erminia Rizzi del Network porti adriatici, che denuncia le continue riammissioni che avvengono via mare, soprattutto verso la Grecia.
Respingimenti di fatto, che accadono senza alcuna valutazione delle storie di chi arriva, in assenza completa di mediazione culturale e spesso con la distruzione di effetti personali, documenti, cellulari.
E tutto questo «nonostante vi sia stata nel 2014 una pronuncia della Corte europea che condanna l’Italia. Una condanna per espulsione collettiva di 35 persone straniere. Procedura per legge illegittima che continua ad avvenire, con evidenti violazioni di diritti, senza alcuna valutazione di chi arriva, sia questo uomo, donna o minore».
Respingimenti dunque che non avvengono in Libia, ma a Bari, Venezia, Ancona, Brindisi.
Esternalizzazione frontiere
A parlare di Libia è sempre ASGI, con Maurizio Veglio. Lo fa partendo da un legame che viene da lontano, da quell’Italia fascista che fece del paese nordafricano una colonia, fino ad arrivare al 2017, alla firma del Memorandum che rappresenta certo la punta di iceberg di una relazione che voleva essere di controllo ed è diventata esposizione a minacce.
In questo, il tema migratorio, ancora dai tempi di Gheddafi è esemplificativo.
Un accordo, quello siglato trai due paesi, che venne definito dal ministro Minniti, che ne fu promotore insieme a Orlando, “patrimonio dell’Italia”, qualcosa di cui “essere orgogliosi”.
Un orgoglio su cui l’Italia ha investito un miliardo di euro, e dai 30 ai 39milioni solo in guardia costiera. L’obiettivo è un contenimento di arrivi mai realizzato praticamente. Nonostante questo, il Memorandum continua a rinnovarsi ogni tre anni.
«L’eredità poi sta nel veleno delle parole che sono passate con il tempo: una “cooperazione” tra i due paesi che ha camuffato la realtà, falsificando quello cosa in realtà sia questo accordo; i cosiddetti “soccorsi” sono di fatto respingimenti, i “campi di accoglienza”, lager in cui le persone sono sottoposte a sevizie e schiavitù”. Si parla di migranti illegali, invece che di flussi illegali, si rendono fuori legge le persone».
L’altra frontiera calda è quella tunisina, raccontata dalla giornalista Arianna Poletti. Qui, dal 2011 a oggi, i milioni spesi sono 59. Ma sono fondi provvisori visto il recente accordo tra il paese e l’Europa. Atto ancora a fermare partenze, nonostante sia un modello, questo del finanziamento che blocca gli sbarchi, già fallito.
«Oltre ad aver fallito esternamente, questo modello è un fallimento anche interno. In Tunisia c’è un rafforzamento della repressione e dell’apparato securitario. Davanti a un’impennata della discriminazione razziale si continua a considerare il paese sicuro e così si finisce per non parlare più dei temi necessari, oramai esclusi dal dibattito politico: diritto alla mobilità; problema dei visti e accesso alla migrazione regolare».
Ci sono poi delle morti di cui non si parla, perché non avvengono in quel tratto di mare che ci separa dal continente africano, sono quelle che avvengono nel deserto.
A raccontarle Giacomo Zandonini per Fada collective. Sono quelle che avvengono in Niger, che si trova davanti a un altro decennale, quello che lo separa dall’incidente avvenuto nel deserto del Sahara nel novembre 2013: un camion si perde in mezzo a una tempesta di sabbia, saranno 92 le persone ritrovate morte.
Un rimosso non detto questo di chi muore durante il tragitto che non arriva ai media.
Via terra
Poi ci sono le frontiere terrestri, quelle di cui si parla molto meno e dove neanche si contano i passaggi.
Mentre per gli arrivi via mare, ogni due giorni il Viminale aggiorna il cruscotto, specificando anche le nazionalità, la conta di chi transita lungo i confini è lasciata alle associazioni che, meritoriamente, pubblicano report per registrare un fenomeno migratorio che fa meno notizia.
Per il confine triestino c’è Gianfranco Schiavone, ICS Consorzio italiano di solidarietà. Qua le nazionalità prevalenti sono quelle di chi avrebbe diritto a un asilo: afghani, siriani, curdi.
Anche chi arriva qui, via terra, è passato attraverso respingimenti, il cosiddetto Game. «E qua che inizia il primo esperimento di respingimento rivendicato che vede l’Italia, la Croazia e la Slovenia». E qui che quel sistema di accoglienza tanto sbandierato non funziona.
«Chi passa attraverso la rotta balcanica non è inserito nel sistema d’accoglienza o lo è solo parzialmente, chi transita lo sa. Oramai tra l’altro lo si dichiara apertamente ora che si parla di CPR e CAS, solo le persone richiedenti degli sbarchi. Il resto è fuori».
E il transito continua e c’è chi arriva a Ventimiglia o a Oulx pensando di poter passare la frontiera francese. Ma anche questa è terra di respingimenti.
Lo raccontano Simone Alterisio della Diaconia Valdese e Martina Cociglio. Le prassi illegittime si ripetono quando si varca la frontiera: ai minori si distruggono o alterano i documenti, a Mentone si aumenta il numero dei container dove contenere le persone che si vogliono riammettere in Italia.
Poco importa siano donne e bambini, abbiano o meno il diritto a transitare. «Già sul treno avviene il controllo razziale del biglietto, li si fa scendere e li si rinchiude, se è pomeriggio o sera, fino all’indomani mattina. In un luogo dove non c’è acqua, bagno, viveri».
Anche in questa frontiera si registrano morti. Quarantasette. Chi rimane folgorato sul tetto del treno, chi cade nei dirupi, chi investito mentre cerca di attraversare a piedi l’autostrada. E se non è Ventimiglia ma Oulx, il confine della Val di Susa, dove mediamente transitano tra le 100 e 200 persone, in questo periodo, i respingimenti avvengono lungo i sentieri di montagna.
Tra CPR e mancata accoglienza
Per chi rimane il sistema accoglienza latita, la buona esperienza dei SAI è sempre più boicottata, diventata una forma di resistenza di alcuni comuni italiani che ci credono e che, come racconta Marisa Varvello, fanno parte della rete Recosol.
La destra ha smantellato il sistema in maniera funzionale a creare non solo scontento ma la parvenza di una continua insicurezza che giustifica l’arrembaggio verso l’aumento dei CPR, Centri per il rimpatrio.
Centri dove accade di tutto rispetto alle violazioni dei diritti e dove, proprio Altreconomia con un’inchiesta di Luca Rondi, ha documentato un sovra abuso di psicofarmaci.
«Quel sistema che dovrebbe servire al governo per i rimpatri non funziona. Il 50% delle persone che vi transitano viene rilasciata, più di 6mila lo scorso anno. Poi è emerso che si fa un uso spropositato di psicofarmaci. Abbiamo scritto su questo, sono state presentate cinque interpellanze a Piantedosi e Schillaci e tutto tace. A Vercelli la spesa in psicofarmaci rappresenta lo 0,6% del totale: al CPR di via Corelli a Milano, invece, questa cifra è 160 volte più alta (il 64%), al “Brunelleschi” di Torino 110 (44%), a Roma 127,5 (51%), a Caltanissetta Pian del Lago 30 (12%) e a Macomer 25 (10%)».
La gente viene sedata per essere mantenuta tranquilla. Ed è questo il sistema che si vuole incrementare. A dieci anni dal 3 ottobre 2013 il quadro appare sempre più tetro. Si era detto “Mai più”, invece non solo si continua a morire in mare, ma i governi non hanno imparato nulla.