Il 2023 coincide con il 75° anniversario dell’avvio delle operazioni di pace delle Nazioni Unite nel mondo. La prima missione (UNTSO), nel 1948, vide lo stanziamento di osservatori militari incaricati di monitorare il cessate il fuoco tra Israele e i paesi confinanti, con i quali era entrato in conflitto.
Se si valutano successi e fallimenti delle operazioni di peacekeeping avvenute in questi 75 anni, secondo la maggioranza degli analisti, non c’è da sentirsi troppo soddisfatti.
Va detto che oltre metà delle missioni dell’ONU compiute dopo la guerra fredda hanno avuto luogo in Africa, e ancor oggi l’84% dei circa 87mila peacekeepers sono di stanza nel continente.
Le statistiche dicono inoltre che metà dei paesi in cui l’ONU è intervenuta, sono caduti in ulteriori situazioni di conflitto a causa dell’inadeguatezza o della scarsa pianificazione delle operazioni condotte.
Una realtà alquanto negativa, come sembrano confermare varie decisioni in merito alle più recenti missioni di peacebuilding in Africa.
Ad esempio, intervenendo di recente all’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, il presidente della Repubblica democratica del Congo (RDC), Félix Tshisekedi, ha chiesto all’organismo mondiale di avviare in dicembre il ritiro dal paese delle 18mila truppe della missione MONUSCO.
Da mesi, peraltro, ha preso avvio l’espulsione di 13mila caschi blu delle Nazioni Unite dal Mali, voluta dal regime militare del colonnello Assimi Goïta, operazioni da concludersi entro gennaio 2024.
Inoltre, l’Unione africana (UA) prosegue nel ritiro dei suoi 15mila caschi blu dalla Somalia a causa della riluttanza dei governi occidentali di continuare a finanziare la missione. Queste partenze anzitempo rischiano di creare ulteriore instabilità in ampie regioni del Sahel africano, dei Grandi Laghi e del Corno d’Africa.
Indolenza e inefficacia
Una constatazione di natura generale, secondo molti, è che le forze di pace delle Nazioni Unite spesso si mostrano restie a intraprendere missioni di controllo pericolose, necessarie tuttavia per proteggere le popolazioni a rischio.
Un fatto che riguarda anche i paesi che mettono a servizio delle Nazioni Unite loro soldati, come India, Pakistan, Bangladesh e Nepal, che tendono a rifiutarsi di schierare le proprie truppe in missioni di difesa della pace nelle aree più a rischio.
Nel caso della Rd Congo, ad esempio, dopo l’arresto e l’uccisione del popolare primo ministro congolese Patrice Lumumba, avvenuta sotto il naso dei caschi blu delle Nazioni Unite nel 1961, molti governi africani si opposero allo spiegamento delle forze di pace, allora quasi tutte di paesi occidentali, sul loro territorio.
Anche i governi di Egitto, Burundi, Eritrea, Ciad e Sudan, infatti, decisero nel tempo di espellere le forze di pace.
Va d’altra parte riconosciuto che l’organismo mondiale, in altri paesi come Namibia, Mozambico e Sierra Leone, aveva contribuito notevolmente a ripristinare la pace e a far vincere governi democratici.
Debolezze e mancati sostegni
Da sottolineare, come secondo fattore alla radice dei problemi di cui tuttora soffrono molte nazioni dell’Africa, la fragilità intrinseca di diversi governi.
Questo ha provocato la ricaduta in conflitti interni o con paesi vicini a causa di amministrazioni incapaci, dell’assenza di un soddisfacente sviluppo socio-economico o del fallimento, da parte di attori esterni, di attuare strategie efficaci di costruzione della pace.
In terzo luogo buona parte di responsabilità per il fallimento di varie missioni ONU va attribuita alla debolezza delle organizzazioni regionali africane, ancora piuttosto giovani: l’Unione Africana (UA), la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS/CEDEAO), la Comunità per lo sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) e la Comunità dell’Africa orientale (EAC).
Le quali pure, d’altro canto, hanno dato un contributo notevole e pagato un alto prezzo alla causa della pace.
L’ECOWAS, per esempio, ha perso oltre 1.500 soldati in Liberia e Sierra Leone, mentre in Africa orientale, specie in Somalia, l’ONU ha perso oltre 3.500 peacekeepers.
Infine, il dispiegamento di truppe da parte di agenti esterni come la Francia, gli Stati Uniti e i mercenari Wagner al soldo di Mosca, presenti a Gibuti, Ciad, Niger, Senegal, Mali e Repubblica Centrafricana, si è tradotto spesso in promozione e difesa di interessi di parte, mostrandosi più come ingerenza negli affari dei paesi in cui operavano, invece che in un serio impegno volto a creare una solida architettura di sicurezza per il continente.
Senza tralasciare i ripetuti scandali di natura sessuale o economica verificatisi negli ultimi anni con protagoniste le forze di pace in vari paesi.
Risentimento popolare
Tutto questo ha danneggiato la credibilità dei caschi blu, che sono visti dalle popolazioni locali come coloro che si limitano ad osservare le violenze perpetrate sulla gente e lo sfollamento di milioni di persone, invece di opporsi con forza a tutto questo.
Il fatto che l’80% del miliardo di dollari di budget annuale di queste grandi missioni africane sia destinato a soddisfare i bisogni delle forze di pace delle Nazioni Unite piuttosto che a ricostruire paesi devastati dalla guerra, crea ulteriore risentimento tra le popolazioni locali.
L’ostilità contro la presenza militare della Francia e contro i caschi blu nell’area del Sahel, dominati da Parigi – a capo del Dipartimento delle operazioni di pace delle Nazioni Unite negli ultimi 27 anni -, ha raggiunto il culmine con i vari colpi di Stato militari succedutisi in poco tempo.
Anche qui l’accusa dei nuovi governi installatisi è stata che né le forze francesi né le forze delle Nazioni Unite hanno seriamente combattuto i gruppi jihadisti dello Stato Islamico e di al-Qaeda che imperversano sempre più in queste regioni.
Parigi, in particolare, è stata accusata di aver intrapreso missioni finalizzate in definitiva a mantenere i propri interessi nei paesi francofoni: Repubblica Centrafricana, Mali, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Niger, Rd Congo e Ciad.
Ripensare la struttura
La sfida per le Nazioni Unite è di rivedere quindi completamente la modalità di presenza e di implementazione dei programmi di difesa e promozione della pace.
Controllando che venga evitata ogni forma di corruzione, di indisciplina o di violazione del rispetto per le popolazioni che li ospitano; promuovendo il percorso dei governi verso forme mature di democrazia e di amministrazione della cosa pubblica, affrontando insieme agli stessi governi le cause profonde dei conflitti.
Ma anche garantendo che chi contribuisce all’assegnazione di truppe per le missioni di pace che siano disposte e preparate anche a rischiare la vita per la difesa della gente.
Un’autentica solidarietà globale richiede infatti che l’obiettivo del mantenimento della pace in Africa o altrove rimanga quello di operare per la pace, non per il profitto.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, ha recentemente chiesto che venga creata una Commissione per il consolidamento della pace, dotata di particolari risorse, finalizzata a lavorare a stretto contatto con il Consiglio di sicurezza, il quale ha esso stesso urgente bisogno di riforme per acquistare maggiore legittimità, aggiungendo altri membri permanenti a quelli attuali, rappresentanti in particolare dell’Africa e dell’America Latina.
Questa potrebbe essere la strada per facilitare une vera promozione della pace nel mondo e in Africa, il continente in cui ancora oggi si conta il maggior numero di conflitti.