L’Africa si conferma anche quest’anno il continente più colpito dal flagello della fame, che attanaglia in particolare nell’enorme regione subsahariana.
Lo certifica l’Indice globale della fame 2023 (Global Hunger Index) che ogni anno ne monitora i livelli in 136 paesi nel mondo. 58 dei quali, si legge, al ritmo attuale non riusciranno a ridurre la fame entro l’obiettivo fissato dalle Nazioni Unite per il 2030.
Su scala globale, salvo significativi progressi compiuti da alcuni paesi, la lotta alla fame ha subito una stagnazione generale dal 2015 e la carenza di cibo rimane grave o addirittura allarmante in 43 paesi, quasi tutti africani.
L’Asia meridionale e l’Africa subsahariana restano, ormai da due decenni, le regioni del mondo con i livelli di fame più alti.
Con un aumento, a partire dal 2017, della sottoalimentazione, con il numero delle persone denutrite salito da 572 milioni a circa 735 milioni.
E proprio l’Africa si prevede sia l’unica regione destinata a registrare un aumento significativo del numero di persone sottonutrite, da 282 milioni nel 2022 ai 298 milioni previsti nel 2030.
Nell’indice 2023 sono proprio 12 nazioni africane a comparire tra quelle con livelli più alti del pianeta. Al primo posto c’è il Sud Sudan, seguito da Burundi, Somalia, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Repubblica democratica del Congo, Lesotho, Niger, Ciad, Guinea-Bissau, Liberia e Sierra Leone.
In particolare, il rapporto parla di “livelli di fame allarmanti” in Burundi, Repubblica Centrafricana, Rd Congo, Lesotho, Madagascar, Niger, Somalia, Sud Sudan e Yemen.
Ci sono però anche esempi virtuosi. Sette paesi i cui punteggi nel 2000 indicavano un livello di fame “estremamente allarmante”, da allora hanno fatto progressi. Sono: Angola, Ciad, Etiopia, Niger, Sierra Leone, Somalia e Zambia.
L’indice definisce poi “particolarmente impressionante, date le sfide affrontate nel mondo e la stagnazione dei livelli di fame a livello globale negli ultimi anni”, i progressi di altri sette paesi: Ciad, Gibuti, Mozambico, Repubblica democratica di Lao, Nepal, Timor Est, Bangladesh e Laos.
Cause molteplici
A gravare sul continente africano è un micidiale mix di condizioni avverse, a partire dagli effetti del cambiamento climatico, con imprevedibili siccità e alluvioni, condizioni estreme che compromettono la produzione alimentare.
A questo si uniscono le tante e prolungate instabilità politiche e i conflitti, che interrompono le attività agricole e spostano le comunità, aggravando ulteriormente la crisi.
Infine l’assenza di politiche sociali e la crescente disuguaglianza economica, che lascia i più vulnerabili senza accesso alle risorse alimentari essenziali.
Oltre a tutto questo, fa notare ancora lo studio, “la popolazione africana è sul punto di raddoppiare entro il 2050, esercitando ulteriore pressione sulla produzione alimentare e sui sistemi di distribuzione, già messi a dura prova dalla domanda esistente”.
Investire sui giovani
Nelle conclusioni, il rapporto fa notare che proprio i paesi più colpiti dalla fame, sono generalmente anche quelli che hanno la più grande risorsa per un cambiamento: i giovani.
Giovani che fino ad ora non hanno avuto la possibilità di partecipare ed avere voce nelle decisioni che influenzano il loro futuro, ma che devono essere messi nelle condizioni di poter “svolgere un ruolo centrale nella trasformazione degli attuali sistemi alimentari fallimentari”.
Applicando “la loro energia e innovazione per aiutare i sistemi alimentari a diventare più sostenibili, più giusti e più capaci di incontrare i bisogni di tutte le persone del mondo, soprattutto di quelle più vulnerabili”.
Per questo gli autori invitano i governi a mettere il cibo “al centro delle politiche, dei programmi e dei processi di governance dei sistemi alimentari” e a mettere le persone nelle condizioni di poter realizzare il proprio diritto a farlo.
In particolare, appunto, i giovani, sulle cui capacità di “diventare leader nella trasformazione dei sistemi alimentari” è fondamentale investire. E questo, “significa investire anche nella loro istruzione e nello sviluppo delle competenze, così come sulla loro salute e alimentazione”.