C’è una geopolitica da bar che ripropone previsioni funeste e rassegnate quando si occupa di Africa. Un continente visto come un concentrato di guerre, migrazioni forzate, disastri ambientali e colpi di stato.
Non che questi stereotipi siano manifestamente falsi. Ad esempio, è vero che la violenza armata non è sparita dai confini africani. È vero che gli stati senza democrazia aumentano e che si rivelano strutture contese fra poteri privati e sponsor esterni. È vero che aumentano i golpe. Ed è anche vero che ci sono paesi in bancarotta fisica, come il Sudan che rischia una deriva libica.
E non ci si può neppure scordare che è cagionevole pure la salute economica: il debito pubblico africano ha raggiunto i 1.800 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento del 183% dal 2010, pari a circa quattro volte la crescita del Pil totale del continente.
Bene. E allora su cosa si basa il cauto ottimismo che si respira nelle analisi di questi ultimi tempi? Sul fatto che per il biglietto d’ingresso nella storia gli africani bussano sempre meno al botteghino occidentale (e non solo).
Nel 2023 ci sono stati chiari segnali di un nuovo protagonismo, di un soggettivismo africano. I paesi si stanno costruendo una loro agenda che serve per rivedere i rapporti di forza con il resto del mondo. Per emanciparsi dal pensiero unico. E non sono segnali di fumo. Ma concreti.
Segnali intravisti già con il voto in sede ONU a sostegno delle risoluzioni di condanna all’invasione russa in Ucraìna: gli stati africani hanno costituito un blocco significativo tra quelli che si sono astenuti.
Nell’agosto scorso, poi, altre due nazioni continentali – Etiopia ed Egitto – si sono aggiunge al Sudafrica nei BRICS, l’alleanza che si pone come alternativa al sistema economico e politico occidentale (statunitense, soprattutto). Uno sviluppo degno di nota perché darà a tre delle maggiori economie africane un ruolo in un gruppo che sta diventando una voce sempre più influente nel sud globale.
E anche la notizia – di settembre – dell’ammissione dell’Unione Africana nel club delle economie industrializzate del G20 sarebbe stata sorprendente solo qualche anno fa.
Una chiamata per nulla scontata, anche se logica. Significa che i paesi africani avranno la possibilità di non far cadere nel vuoto le loro richieste. Significa che i leader africani parteciperanno alle conversazioni globali su una serie di argomenti – dal commercio all’agricoltura, dalla migrazione al cambiamento climatico e alla transizione energetica – dove hanno interessi da tutelare e problematicità da sciogliere.
L’UA e l’Unione Europea saranno i soli due blocchi regionali a far parte a pieno titolo del G20. Potrebbe essere l’occasione, per i paesi del continente, di dimostrare che non vanno in giro per il globo solo con il cappello da mendicanti a chiedere elemosina.
Ma la partecipazione al tavolo dei grandi non deve far passare in second’ordine una tendenza che si va ormai consolidando: gli stati africani (o molti di loro) sono in via di de-occidentalizzazione. Scommettono sul disallineamento.
Il monocolore “atlantico” si sta scolorendo. E a sbiadire è soprattutto la bandiera francese nelle sue ex colonie: Parigi sempre più vissuta come la sede del demonio.
Pura retorica? L’epidemia degli afropessimisti sommergerà anche questi deboli segnali? Il 2024 ci dirà se l’Africa riuscirà a contenere le sue contraddizioni.
BRICS
Nel 2002 Goldman Sachs identificò Brasile, India, Russia e Cina come il gruppo di mercati emergenti in cui era particolarmente conveniente investire. Nel 2009 i governi di questi paesi decisero di creare un foro di discussione alternativo al G7 e parallelo al G20, cui hanno integrato nel 2011 il Sudafrica. Da lì l’acronimo BRICS. Nell’agosto scorso, a Johannesburg, si sono aggiunti altri sei paesi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.