Le critiche degli attivisti climatici alla scelta di svolgere la Conferenza ONU sul clima (COP28) negli Emirati Arabi Uniti si stanno dimostrando più che fondate, viste le polemiche suscitate dalle peculiari e controverse posizioni espresse su diversi temi chiave da esponenti della leadership del paese ospitante.
Si sono rivelate tali ancor prima dell’inizio della conferenza, con la presidenza assegnata al sultano Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), la più grande compagnia petrolifera statale dell’emirato di Abu Dhabi.
Che, al di là delle buone intenzioni evidenziate nel motto “Maximum energy. Minimum emissions” e dettagliatamente descritte nella sua pagina web, si propone di aumentare del 41% l’estrazione di petrolio e del 30% quella di gas entro il 2030, andando in direzione diametralmente opposta a quanto necessario per contrastare la crisi climatica e agli impegni che il paese ha preso firmando l’accordo di Parigi nel 2015.
Tanto per fare un paragone con altre importati compagnie petrolifere, la Shell programma di chiudere o quasi la sua produzione e la BP di tagliarla del 25% entro la stessa data.
Blue Carbon in Africa
Nelle scorse settimane altre vivissime preoccupazioni sono state suscitate dalle attività della Blue Carbon, una compagnia finora poco conosciuta che sul suo sito web dichiara di essere stata fondata “per creare beni ambientali, soluzioni basate sulla natura e registrare progetti per la rimozione di carbonio usando metodologie moderne”, in sostanza per commerciare in crediti di carbonio.
La Blue Carbon ha sede a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, e agisce sotto il patrocinio di un membro della famiglia reale, lo sceicco Ahmed Dalmook Al Maktoum.
Interessante sapere che uno dei consulenti della compagnia è italiano, Samuele Landi, ex fondatore e amministratore delegato di Eutelia nei primi anni 2000, oggi console onorario della Liberia nel paese del Golfo, condannato in Italia per bancarotta fraudolenta. Non proprio una garanzia per trasparenza e legittimità dei suoi affari.
In un paper pubblicato lo scorso agosto dalla Yale School of the Environment, dello sceicco Ahmed Dalmook Al Maktoum si dice che capeggia la corsa “per catturare e vendere crediti di carbonio attraverso la gestione di decine di milioni di acri di foresta in Africa”.
L’obiettivo, dice l’autore, Fred Pearce, sarebbe quello di vendere quei crediti ai governi degli stati petroliferi del Golfo, e anche altrove, “così che possano compensare le loro emissioni di carbonio, aiutandoli a far fronte agli impegni presi nell’accordo di Parigi del 2015”.
E così si fa quadrare il cerchio negli affari del paese. Basta avere i denari iniziali per stipulare i contratti con i governi africani, e negli Emirati i petrodollari non mancano di certo, e poi si può continuare a estrarre, utilizzare e vendere combustibili fossili e, in aggiunta, a lucrare sul multimiliardario mercato dei crediti di carbonio, per altro non così trasparente e molto criticato dagli ambientalisti, proprio perché di fatto si presta ad essere una foglia di fico per chi emette gas serra.
Secondo un articolo della CNN pubblicato lo scorso novembre, la Blue Carbon avrebbe già firmato memorandum d’intesa con sei paesi africani, e precisamente Liberia, Angola, Zimbabwe, Zambia, Kenya e Tanzania.
Il territorio interessato avrebbe complessivamente un’estensione di 25 milioni di ettari, superiore a quella del Regno Unito, e rappresenterebbe una percentuale significativa di quello dei paesi coinvolti.
Ad esempio, lo scorso settembre lo Zimbabwe avrebbe firmato un accordo per la cessione di 7,5 milioni di ettari, un quinto del territorio del paese. Sia in Tanzania che in Zambia, Blue Carbon assumerà il controllo di oltre 8 milioni di ettari, mentre la Liberia gli ha concesso diritti esclusivi su 1 milione di ettari di foresta pluviale – un decino del territorio – per un periodo di 30 anni.
«C’è una corsa ad accaparrarsi il carbonio intrappolato nelle foreste dell’Africa» dice anche Saskia Ozinga, cofondatore di Fern, una ong che si occupa di giustizia ambientale con sede a Bruxelles.
«Ma questi accordi rischiano di defraudare i paesi, le comunità che vivono nella foresta e il clima, e sembrano essere negoziati da governi africani che non capiscono il mercato dei crediti di carbonio o che ne traggono benefici personali». Insomma, governi sprovveduti o corrotti.
Tutelare foreste e popoli indigeni
C’è già un caso conosciuto di violazione dei diritti delle comunità locali in nome dei crediti di carbonio. Si tratta degli ogiek, un gruppo indigeno che vive tradizionalmente nella foresta Mau, in Kenya.
Amnesty International, Human Rights Watch e Survival International lo hanno denunciato il giorno dell’apertura di COP28 con un comunicato congiunto.
Il documento si conclude sottolineando che “ogni iniziativa di conservazione della foresta connessa con lo sfratto forzato di popoli indigeni è illegale e avviene in violazione di leggi internazionali. Non possiamo proteggere il nostro pianeta senza riconoscere e rispettare i diritti dei popoli indigeni alla loro terra”.
Il comunicato stampa chiama direttamente in causa il governo di Nairobi che nega decisamente di aver un qualsiasi tipo di accordo per concedere ad altri i diritti di sfruttamento dei propri crediti di carbonio.
Non può negare, però, di essere un grande sostenitore del loro mercato da cui spera di ricavare notevolissime risorse da investire per far fronte ai cambiamenti climatici da cui il paese è particolarmente colpito.
E non può negare neppure che, all’inizio di novembre, è iniziato un nuovo ciclo di sfratti dei comunità ogiek dalla foresta Mau, politica condannata anche da due sentenze del tribunale dei diritti dell’uomo e dei popoli dell’Unione Africana, che ha sede ad Arusha, in Tanzania.
Fermare il land grabbing
La criticità del mercato dei crediti di carbonio, e in particolare delle attività della Blue Carbon, è stata sottolineata anche da un comunicato di Fern, firmato da numerose organizzazioni ambientaliste di ogni continente e diffuso il 29 novembre, il giorno precedente l’apertura di COP28.
Nel documento si chiede ai paesi firmatari dell’accordo di Parigi di chiudere ogni scappatoia che permetta l’accaparramento di terreno in nome del contrasto ai cambiamenti climatici.
Interessante osservare che in una nota a piè di pagina si dice che le organizzazioni presenti a Dubai non hanno potuto firmare “perché sono state informate che negli Emirati è illegale criticare il governo, la famiglia reale o i loro affari”.