Quello che sta per finire è stato un anno difficile per i paesi del Corno d’Africa, che in sintesi si può descrivere come ‘annus horribilis’.
Un anno in cui sono verificati eventi tragici con conflitti interetnici e ricadute negative dovute a guerre esterne quali quella russo-ucraìna e la più recente israelo-palestinese.
I paesi del Corno hanno inoltre subìto tutti, durante l’anno, chi prima chi dopo, le ormai consolidate condizioni climatiche estreme con prolungata siccità o estese inondazioni, i cui effetti sulle popolazioni sono stati come sempre devastanti.
Per non parlare dei fenomeni mai risolti di terrorismo, traffici illegali, migrazioni forzate, conflitti e pirateria.
Come aveva prefigurato, tra l’altro, un esperto del Corno d’Africa, Macharia Munene, in un’analisi geopolitica pubblicata a inizio 2023 per l’HORN International Institute for Strategic Studies, i quattro Stati che compongono il Corno d’Africa, che potrebbero formare un nuovo blocco economico integrato, nel corso del 2023, pur con qualche operazione di successo, hanno subìto una lunga serie di battute d’arresto nei loro programmi di sviluppo.
Etiopia instabile
La situazione più critica è rappresentata dall’instabilità generale dell’Etiopia, il gigante del Corno con i suoi quasi 120 milioni di abitanti, che è giunta in questo fine anno alla definitiva bancarotta per insolvenza economica.
Il governo, tra l’altro, non è stato in grado di risolvere i conflitti interni tuttora in atto dopo che, a fine 2022, con la firma dell’accordo di pace tra il governo centrale e lo Stato-regione del Tigray, si sperava in una soluzione di altri contrasti.
Al contrario, nello stato Amhara sono scoppiati scontri tra ribelli ed esercito federale, in aggiunta alla perdurante guerra tra Addis Abeba e Esercito di liberazione oromo (OLA), che vari incontri bilaterali non sono riusciti a risolvere.
Il primo ministro Abiy Ahmed negli ultimi mesi dell’anno ha sviato l’attenzione del governo e dell’opinione pubblica dai problemi della sicurezza interna, insistendo sull’impellente necessità di conquistare uno sbocco sul Mar Rosso, obiettivo da conseguire attraverso negoziati o, se questi fallissero, anche con l’uso della forza.
Una aspirazione, questa, che ha provocato la reazione negativa di tutti i paesi limitrofi.
Altra sfida dell’Etiopia riguarda la sua relazione con l’Eritrea che è andata deteriorandosi. Un peggioramento dovuto anche al fatto che le truppe eritree non hanno mai lasciato il Tigray e Asmara sembra aver appoggiato i ribelli amhara.
Fatto sta che il trattato di pace firmato tra Abiy Ahmed e Isaias Afwerki a Jeddah il 16 settembre 2018, che aveva fruttato il premio Nobel per la Pace al primo ministro etiopico, è ormai solo un ricordo.
Nell’accordo si leggeva tra l’altro: “I due paesi svilupperanno progetti di investimento congiunti compresa la creazione di zone economiche speciali comuni”. L’Etiopia, a tale proposito, pare avesse pianificato di sviluppare un nuovo porto da essa gestito, Tio, sulla costa eritrea del Mar Rosso, in alternativa ai porti di Assab e Massaua.
Alcuni analisti sostengono che il deterioramento delle relazioni ha impedito di negoziare il piano prefigurato e Abiy Ahmed aveva manifestato a tale riguardo il suo sdegno in parlamento, quando in novembre ha ribadito l’intenzione di ottenere un porto sul Mar Rosso con le buone o con le cattive.
Attivismo eritreo
Quanto all’Eritrea, pur rimanendo sostanzialmente isolata dalla comunità internazionale, ha rafforzato la sua vicinanza con Cina e Russia, e ha visto accolta la sua richiesta di rientro nell’organismo dell’IGAD, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, dopo 16 anni dal suo ritiro.
Un rientro già in crisi a causa della controversia verificatasi nei suoi rapporti con Djibuti riguardo a questioni legate alla frontiera, situazione tutt’ora in sospeso e senza alcuna soluzione in vista.
Incognita Somalia
In merito alla Somalia, va rilevato che il paese è entrato ufficialmente a far parte della Comunità dell’Africa orientale (EAC), unendosi a Burundi, RD Congo, Kenya, Rwanda, Sud Sudan, Tanzania e Uganda.
L’essere stata accolta nell’EAC fa presumere un certo allontanamento dal blocco dei paesi del Corno, di cui è tuttavia, a livello geopolitico, parte integrante.
I critici di questa operazione sostengono che l’ingresso della Somalia nell’EAC non è che un ‘cavallo di Troia’ che apre la strada all’interferenza straniera nell’intera regione. Secondo gli analisti il governo federale, infatti, ha a malapena il controllo del paese e le sue istituzioni, compresi i servizi di sicurezza, sono tutt’ora del tutto precari e mal funzionanti.
La protezione dal terrorismo finora esercitata dall’ATMIS, la Missione militare e civile per la transizione sostenuta dall’Unione Africana (UA) su mandato delle Nazioni Unite, si sta per chiudere con la cessione di numerose basi militari e truppe a difesa di infrastrutture critiche alle Forze di sicurezza somale (SSF), in base a un piano che prevede il completo ritiro entro il 31 dicembre 2024.
Ma le forze di sicurezza somale non paiono ancora in grado di contrastare, da sole, la minaccia di al-Shabaab.
Un altro fatto importante per la Somalia, è stato la rimozione dell’embargo sulle armi imposto al paese dal Consiglio di sicurezza dell’ONU nel 1992.
Sul piano finanziario poi, nonostante la riduzione di 4,5 miliardi di dollari di debiti da parte del FMI e della Banca Mondiale, il paese si trova tutt’ora in una condizione economica molto precaria, aggravata dal pervasivo sistema di corruzione.
Mar Rosso e Golfo di Aden
I due paesi che fino ad oggi non hanno mostrato controversie bilaterali sono Somalia e Djibuti.
Aree peraltro estremamente critiche, visto che si affacciano su una delle vie d’acqua più importanti del mondo, sia sul piano commerciale che militare, cioè lo stretto di Bab el-Mandeb, specchio d’acqua di soli 28 km tra Djibuti e lo Yemen che unisce Mar Rosso, golfo di Aden e Oceano Indiano.
Non per nulla nella regione sono presenti basi militari di Francia, Stati Uniti, Cina, Giappone, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Spagna, Italia, Regno Unito, Qatar e altri ancora.
Si calcola che circa il 60% delle petroliere navighi attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb. L’interruzione di questa rotta costringerebbe le navi, come già si è verificato recentemente, a cambiare rotta e a circumnavigare il continente, facendo aumentare il costo di trasporti e merci.
I conflitti in corso, soprattutto la guerra israelo-palestinese con le minacce al commercio navale diretto verso il Canale di Suez causate dagli attacchi lanciati dagli houthi dello Yemen, dimostrano l’importanza del dominio sul Mar Rosso.
Il Corno d’Africa, in definitiva, mentre entra nel 2024, offre uno scenario di sostanziale instabilità che rischia di renderlo preda dei giochi egemonici delle forze che competono per l’influenza nella strategica regione.