Mati Diop ha vinto l’Orso d’Oro alla 74a edizione della Berlinale con Dahomey un documentario dedicato alla restituzione di 26 oggetti trafugati nel 1892 dal Regno del Dahomey (oggi Benin) dalle truppe coloniali francesi guidate dal Generale Dodds e conservati fino al 2021 al Musée de l’Homme ora Musée du quai Branly di Parigi.
Premiata da Lupita Nyong’o (Presidente di una giuria composta da Brady Corbet, Ann Hui, Christian Petzold, Albert Serra, Jasmine Trinca e Oksana Zabuzhko) la regista francese di origini senegalesi ha accolto il premio rivendicando orgogliosamente il rifiuto dell’amnesia storica come metodo (di dominio neocoloniale) e dichiarando solidarietà con la Palestina e il popolo senegalese che da mesi si batte per la democrazia e la giustizia.
Un tema spinoso
L’argomento della restituzione è complesso ed è emerso prepotentemente nel dibattito culturale coinvolgendo soprattutto Francia e Inghilterra, che al Louvre e al British Museum ospitano migliaia di reperti rubati durante il dominio coloniale. «Entro cinque anni dobbiamo essere in condizione di permettere il ritorno del patrimonio africano in Africa. È una priorità», aveva detto Emmanuel Macron il 28 novembre 2017 in un discorso all’Università di Ouagadougou, in Burkina Faso; ma già nel 2016 il Presidente del Benin Patrice Talon rivendicava la restituzione del tesoro reale.
Il tema del ritorno è da sempre presente nel cinema di Mati Diop. Da Milles Soleils, dove si confronta con il film cult Touki Bouki e con le sue origini africane (proprio al Quai Branly la regista rende omaggio al cinema di Mambety in un incontro dell’université populaire) alla figura del revenant in Atlantiques.
La regista parla di un cortocircuito tra restituzione, vendetta, ritorno e riparazione che l’ha portata a volere realizzare il documentario . Quando è stato annunciata la selezione delle 26 opere che il 10 novembre 2021 sarebbero state restituite al Benin, Mati Diop si è attivata per le riprese coinvolgendo il governo del paese africano nel film e creando una società di produzione senegalese che potesse entrare in coproduzione con la Francia.
Fra realismo magico e narrazione rigorosa
Il documentario, definito dalla stessa regista di genere fantasy, sperimenta un linguaggio che mescola più stili. Mentre la preparazione delle opere al viaggio è filmato con il rigore del documentario di osservazione, il realismo magico serve ad animare le opere, in particolare la statua del Re Gizo, che si esprime in lingua Fon attraverso le parole e la voce del poeta haitiano Makenzy Orce. Un flusso di coscienza che attraverso il buio dei container nel quale è rinchiuso il Re restituisce pensieri e problemi esistenziali così come il disappunto per essere stato etichettato ed identificato con un numero, il disorientamento nel momento dell’uscita dal regno della notte e dell’arrivo in un paese molto diverso da quello sognato.
Il momento storico trova così anche una dimensione mitica che non è ridotta però a cieca celebrazione ideologica ma ricorda con onestà intellettuale la parte di responsabilità del Re Giza nella tratta degli schiavi della metà Ottocento. Un’altra voce importante è presente, ed è quella Calixte Biah, il curatore del Museo di Storia di Oudiah che accompagna il carico da Parigi a Cotonou. La sua riverenza nei confronti del tesoro e il suo dettagliato resoconto della condizione e dell’ origine delle opere restituisce il necessario contesto storico e artistico.
Il dibattito si espande
In Benin la videocamera si sofferma ed esplora lungamente, quasi fosse un saggio di architettura, lo spazio del palazzo presidenziale che accoglie le opere per tornare poi neutro dispositivo per registrare l’acceso dibattito degli studenti dell’Università di Abomey-Calavi su temi scottanti quali l’eredità culturale, la politica coloniale, le reali motivazioni dietro alla restituzione, le conseguenze della lunga assenza dei tesori reali per la cultura del paese che si è dovuto confrontare per anni con un enorme vuoto e un’impagabile assenza. Così Mati Diop libera il dibattito sulla restituzione facendolo uscire dagli ambienti politici e accademici dove era stato recluso.
«Per me la sfida è stata trovare il modo di creare uno spazio di libera espressione su un argomento che appartiene assolutamente ai protagonisti», ha dichiarato la regista. «Il giorno delle riprese, ho scelto di trasmettere il dibattito alla radio del campus per generare più tensione e urgenza tra i relatori, che sapevano che stava ascoltando un pubblico più vasto. Indipendentemente dalle riprese, era legittimo che il dibattito venisse trasmesso e condiviso tra quante più persone possibile».
Il riferimento cinematografico più diretto a Dahomey è sicuramente Les statues meurent aussi (1953) di Alain Resnais e Chris Marker, riflessione sull’arte africana e il colonialismo. Ma a noi viene in mente anche Francofonia di Sokurov sulle opere dell’Antica Grecia depredate da Napoleone. Dahomey non è però un film nostalgico ma profondamente contemporaneo. Non nega infatti le contraddizioni che possono celarsi dietro ad operazioni culturali come quelle della restituzione. I visitatori che accorrono in massa a vedere le opere esposte evidenziano il rischio che i tesori nazionali del Benin possano diventare come le mini-torri Eiffel che si vedono all’inizio del film. Gadget per turisti che ignorano l’importanza storica e culturale delle opere davanti le quali si fanno i selfie.