I fermi hanno una giustificazione tanto identica quanto assurda: non si è voluto agevolare i salvataggi da parte della guardia costiera libica. Si sono sottratte persone a un accordo che prevede di riportare nella terra nordafricana chi è in mare.
Evidentemente, per il governo italiano la sentenza n. 4557 della Corte di Cassazione dello scorso primo febbraio in cui, confermando la condanna per il comandante del rimorchiatore italiano Asso28 che aveva consegnato 101 persone migranti a una motovedetta libica, si metteva nero su bianco che la Libia non può essere considerata un “porto sicuro”, è acqua fresca.
Tanto fresca da permettere per la prima volta di applicare la norma della recidiva e aumentare il fermo della Sea Eye 4, che si rifiuta di prendere ordini dalla guardia costiera libica, da 20 a 60 giorni. Il massimo consentito dal decreto Piantedosi, che minaccia il sequestro della nave nel caso in cui a questo secondo episodio se ne aggiunga un altro, il terzo.
Poco importano anche gli spari in acqua che partono da motovedette che l’Italia ha dato in dotazione. Quegli spari che creano panico e altri morti come è accaduto agli inizi di marzo con la Humanity 1.
Un’escalation, questa dei fermi amministrativi, che porta a un totale di 100 giorni di blocco complessivo. 100 giorni senza soccorso attivo sul Mediterraneo. Quel mare che continua a contare morti.
Solo ieri una cinquantina, secondo quanto riferito dalla Ocean Viking che ha salvato un gommone alla deriva da una settimana con a bordo 25 delle 75 persone partite da Zawiya, la metà minori. Una settimana senza alcun intervento, nonostante la cosiddetta cooperazione europea, non solo italiana, con la guardia costiera libica si basi su segnalazione e salvataggi.
Porti sempre più lontani
Ai fermi si aggiunge un’altra pratica disumana e frequente: l’assegnazione di porti sempre più lontani, che costringono le navi delle ong con carico umano a chilometri e chilometri di navigazione in più, che dilatano le sofferenti attese di chi è già da giorni in mare, con un ingente spreco di carburante e un allontanamento delle imbarcazioni dedite al soccorso in mare, che spesso vengono costrette a ulteriori giorni di navigazione in condizioni metereologiche difficili, che costringono a un ulteriore cambio di porto. Lontano sempre, ma un po’ più vicino di quello lontanissimo.
E, a proposito di fermi amministrativi e navi ong, è prevista per oggi la sentenza del tribunale civile di Brindisi, in cui si tiene l’udienza di primo grado del processo alla Ocean Viking. La nave, colpita da blocco di 20 giorni lo scorso 9 febbraio, aveva visto arrivare una sospensiva il 20 dello stesso mese.
La magistrata Roberta Marra, dopo un ricorso in cui l’Sos Mediterranèe aveva chiesto l’annullamento del provvedimento, aveva sospeso il blocco della nave in attesa dell’udienza in merito.
La magistrata si era espressa in questo modo: «Il perdurare della misura del fermo amministrativo è suscettibile di pregiudicare in modo irreversibile il diritto da parte della Sos Méditerranée Ocean Viking di esercitare la propria attività di soccorso in mare, in cui si realizzano le sue finalità sociali, come evincibile dall’accordo di partenariato con la Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa».
Si riconoscevano dunque le finalità sociali del soccorso, esplicitate con le seguenti parole: «prevenire la perdita di vite umane», «migliorare la sicurezza in mare», «rafforzare la cooperazione operativa», «condividere e scambiare informazioni». Attività che «implicano il perseguimento di obiettivi di indubbio valore». Se il fermo cadesse sarebbe un nuovo colpo per il decreto Piantedosi che da gennaio 2013 a oggi ha bloccato le navi 19 volte.