La conferenza dei donatori che si è aperta oggi a Parigi, primo anniversario dello scoppio del conflitto che devasta il Sudan, può essere vista come un quadro delle condizioni in cui versa il paese.
La conferenza intende affrontare in prima istanza la situazione umanitaria, di una gravità e complessità eccezionali per il paese e per la regione intera, a detta di tutti gli osservatori e attori della comunità internazionale coinvolti.
Il primo obiettivo che i convenuti si pongono è quello di raccogliere fondi per aumentare il finanziamento delle richieste contenute negli appelli che le agenzie dell’ONU hanno lanciato all’inizio dell’anno, secondo cui per affrontare la crisi sudanese servirebbero 4,1 miliardi di dollari.
1,4 miliardi sarebbero necessari per i quasi 2 milioni di rifugiati nei paesi limitrofi. 2,7 miliardi servirebbero invece per gli sfollati e la popolazione in Sudan. Di questi, alla fine di marzo, ne erano stati raccolti solo 155,3 milioni, il 6% del totale.
Catastrofe incombente
Le ragioni di una tale mancanza di supporto sono molteplici, ma due pesano in modo particolare: l’insufficiente attenzione della comunità internazionale e la difficoltà di portare aiuto alla popolazione con le modalità messe a punto durante le crisi umanitarie degli ultimi decenni.
Il conflitto sudanese sembra uscito dai radar dell’informazione, e probabilmente anche dell’urgenza diplomatica, oscurato dal confitto russo in Ucraìna e soprattutto dalla crisi di Gaza, percepiti come più pericolosi e incombenti perché impattano più direttamente sulle relazioni tra l’Occidente e l’Oriente, portatori di due visioni della società e delle relazioni internazionali che sembrano, al momento, inconciliabili.
Inoltre le modalità con cui i due belligeranti si confrontano sul terreno rende molto difficile e pericoloso portare soccorso alla popolazione utilizzando gli strumenti e l’esperienza maturata in decenni di lavoro nel contesto di emergenze umanitarie.
Secondo The Hunger’s grip. The Looming catastrophe of Famine in Sudan (La stretta della fame. L’incombente catastrofe della carestia in Sudan), rapporto pubblicato nei giorni scorsi dal centro studi sudanese Fikra for Studies and Development, “la fame è diventata un’arma di guerra in diverse aree” del paese.
Le due parti che si combattono “hanno razziato i mercati, scacciato i contadini dalle loro terre, attaccato le grandi aree di produzione di cereali e distrutti i magazzini dove era stoccato il cibo”. La strategia stessa utilizzata per prevalere nel conflitto rende dunque problematico intervenire in soccorso della popolazione, per la violenza dei combattimenti e per la difficoltà di garantire agli operatori umanitari gli standard di sicurezza necessari.
Secondo il rapporto, gli unici che hanno potuto portare soccorso sono stati i sudanesi stessi. In particolare vengono citati i Comitati di resistenza, “democratici e decentralizzati” che hanno organizzato “emergency rooms, con cucine comunitarie, sistemi di comunicazione e servizi sanitari che hanno tenuto viva la speranza”.
Interlocutori nuovi efficaci, efficienti e dedicati, a detta del rapporto e di numerose altre testimonianze, ma che possono diventare difficilmente interlocutori delle agenzie dell’ONU che raccolgono e distribuiscono gli aiuti internazionali.
La conferenza di Parigi si pone perciò anche un secondo obiettivo: spingere per un cessate il fuoco di lunga durata che permetta di portare aiuto sul terreno ed evitare la catastrofe umanitaria incombente.
Ricorrendo, magari, a strumenti sperimentati in altri contesti, come suggerito da un documento di Yasir Arman, membro della leadership del Tagadum, il coordinamento delle forze civili contro la guerra. Yasir, allora dirigente del SPLM, ricorda che nel 2002, durante la guerra civile che portò all’indipendenza del Sud Sudan, fu organizzato un team per il monitoraggio della protezione dei civili (Civilian Protection Monitoring Team – CPMT) che fece la differenza nel proteggere la popolazione e nell’investigare sulle violazioni dei diritti umani.
Un intervento “urgente, strategico e concreto” per rispondere ai costi enormi che i civili stanno soffrendo, chiede anche un appello congiunto di numerose organizzazioni internazionali. Si rivolgono ai vertici della Commissione europea e degli stati membri dell’Unione e lo hanno diffuso in occasione dell’apertura della conferenza di Parigi, organizzata dai ministri degli Esteri francese e tedesco e dal commissario europeo Josep Borrell.
L’isolamento dei due belligeranti
All’incontro sono stati invitati i ministri degli Esteri dei paesi dell’area a vario titolo e in diversa misura coinvolti nella crisi, insieme a quelli dei paesi che hanno avuto o potrebbero avere un ruolo attivo nella ricerca di una soluzione del conflitto, quali Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Norvegia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Partecipano anche le organizzazioni internazionali, e in particolare l’ONU, la Lega Araba, l’Unione Africana e l’IGAD, l’organizzazione regionale con sede a Gibuti attorno al cui tavolo generalmente si svolgono i negoziati riguardanti le crisi nel Corno e nell’Africa orientale.
Gli organizzatori avrebbero facilitato anche la presenza di numerosi sudanesi, in rappresentanza delle forze politiche e delle associazioni della società civile, che avranno la possibilità di confrontarsi anche in un evento a latere, presso l’Institut du Monde Arabe, istituzione culturale nel centro di Parigi.
Non sono stati invitati, invece, i rappresentanti delle due parti belligeranti.
Ali Elsadig, ministro degli Esteri del governo militare, da Port Sudan – la capitale provvisoria del paese dal momento che Khartoum è quasi del tutto controllata dalle RSF e ormai simile ad una città fantasma – ha diffuso una nota furente in cui esprime “il suo massimo stupore e condanna” per la conferenza che discuterà temi di grande importanza, inerenti un paese sovrano, senza la presenza del suo governo.
Non si può pensare che i vertici dell’Unione Europea l’abbiano fatto per errore. La decisione può essere considerata, piuttosto, come un segno della situazione del paese nella diplomazia internazionale dopo un anno di conflitto.
Potrebbe voler indicare che il governo di Port Sudan non può essere considerato legittimo, in quanto emerso da un golpe militare (il 25 ottobre 2021) che ha portato il paese alla guerra civile. Inoltre rappresenta una sola delle due parti in cui ormai è, di fatto, diviso il paese. Infine si rifiuta di sedere agli stessi tavoli dove siede anche l’altro contendente, suo stretto alleato nel colpo di stato fino al 15 aprile dello scorso anno, quando i due hanno imbracciato le armi portando il Sudan sull’orlo della catastrofe.
Questo rifiuto di ogni contatto con i paramilitari RSF (Forze di supporto rapido), ormai definite come formazione terroristica, ha fatto finora fallire tutti i tentativi di negoziato e ha determinato la condanna, in contumacia, anche dei leader delle forze politiche che hanno tentato di discutere con loro del futuro del paese, discussione cui il governo di Port Sudan si è negato.
Evidentemente è una posizione che non è servita a qualificarsi come unico rappresentante del popolo sudanese, ma ha piuttosto determinato un isolamento che non favorisce gli interessi del paese.