Una rete di “camere della morte” allestite dai paramilitari Forze di supporto rapido (RSF) all’interno di abitazioni occupate nella capitale Khartoum, in cui sarebbero stati giustiziati decine di civili con forche e ghigliottine.
È quanto rivela una dettagliata inchiesta del quotidiano Sudan Tribune che ha raccolto le testimonianze di numerosi attivisti che riferiscono dell’esistenza di almeno 14 stanze segrete adibite a esecuzioni extragiudiziali a Khartoum e nelle città gemelle di Bahri e Omdurman.
Strutture che si presume siano supervisionate da ufficiali che agiscono in qualità di giudici, emettendo condanne a morte per civili accusati di collaborare con l’intelligence dell’esercito.
“I residenti recentemente tornati nelle aree precedentemente controllate dalle RSF – scrive il quotidiano – hanno fornito resoconti agghiaccianti”. Che si aggiungono a video circolanti sui social media e ai rapporti di esecuzioni e pulizie etniche commesse dalle forze combattenti in tutto il paese.
Impiccati o ghigliottinati. Sarebbero decine le persone giustiziate sommariamente, secondo i racconti dei testimoni, i cui corpi sono stati abbandonati all’interno degli edifici o trasportati altrove. Un altro tassello degli orrori finora emersi di questa guerra, crimini commessi da entrambe le parti in conflitto.
Una guerra che vede attualmente le RSF mantenere il controllo della città di Khartoum, mentre l’esercito ha riconquistato Omdurman e porzioni significative di Bahri.
Civili sotto attacco a El Fasher
Ma crimini contro la popolazione si stanno continuando a perpetrare anche sul fronte occidentale, e in particolare nella città di El Fasher, nel Nord Darfur (quasi 2 milioni di abitanti e circa 800mila rifugiati fuggiti dai combattimenti nelle altre province della regione), l’unica capitale della vasta regione rimasta ancora in mano all’esercito.
El Fasher è sotto l’assedio dei paramilitari e delle milizie arabe alleate, radunati a migliaia da settimane attorno alla città, dove hanno iniziato a fare, letteralmente, terra bruciata. Il Center for Information Resilience riferisce che ad aprile sono stati dati alle fiamme 32 villaggi in un raggio di 50 km attorno alla capitale, con decine di morti e feriti.
E dal 10 maggio scorso è iniziata l’offensiva con pesanti combattimenti di terra e attacchi aerei, e con il rischio di una nuova carneficina di civili.
Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le condanne e gli appelli delle organizzazioni delle Nazioni Unite: dall’UNICEF all’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), fino allo stesso Segretario generale Antonio Guterres che si è detto “gravemente preoccupato” e “allarmato dalle notizie sull’uso di armi pesanti in aree densamente popolate che hanno provocato decine di vittime civili, spostamenti significativi e la distruzione di infrastrutture”.
Appelli ai quali si sono uniti quelli dell’Unione Europea e di Medici senza Frontiere, una delle poche organizzazioni internazionali ancora operative in città, costretta a chiudere l’ospedale pediatrico Babiker Nahar – uno dei pochi specializzati nella cura dei bambini rimasti operativi dall’inizio della guerra – colpito la sera dell’11 maggio da un attacco aereo che ha ucciso un operatore sanitario e due bambini.
MSF chiede urgentemente a tutte le parti in conflitto di proteggere i civili e garantire la protezione delle strutture sanitarie, come sono obbligate a fare ai sensi del diritto internazionale umanitario e della dichiarazione di Jeddah, accordo per la tutela dei civili e per l’accesso degli aiuti umanitari alla popolazione, firmata esattamente un anno fa e costantemente disattesa.