Oscurato dalle preoccupazioni per l‘aggravarsi della guerra in Ucraina e per la carneficina di Gaza, il conflitto in Sudan sembra uscito dai radar dell’informazione e della diplomazia internazionali. Eppure, a detta del segretario generale dell’Onu, nel paese si sta consumando la crisi umanitaria più grave del pianeta.
Secondo gli ultimi dati ufficiali, i profughi sono 8,8 milioni, 2 milioni dei quali hanno cercato rifugio fuori dai confini, aggravando la già grave situazione di paesi in bilico, come il Ciad e il Sud Sudan. 15.500 i morti e piú di 1400 gli episodi di violenza accertati contro i civili. In Darfur sono in atto episodi di genocidio. La fame e le malattie si portano via madri e bambini nei campi profughi in cui gli aiuti non arrivano, per l’ostracismo delle due parti belligeranti e per l’insufficiente risposta agli appelli d’emergenza. Solo il 16,5% di quanto richiesto è stato finora messo a disposizione dalla comunità internazionale.
L’esercito nazionale e le milizie delle Forze di supporto rapido (RSF) si scontrano quotidianamente in diverse regioni del paese e nella capitale, distruggendo infrastrutture chiave per la sua economia e per la vita dei suoi cittadini. Non sono per ora in vista tavoli negoziali che possano affrontare la situazione in modo globale ed efficace.
Davanti ad una crisi di queste dimensioni ci si aspetterebbe qualche intervento, o almeno qualche commento da Bruxelles. Invece nessun accenno è stato fatto, neppure nel dibattito per il voto europeo, neppure quando si discute di migrazioni.
Eppure Khartoum era considerata cruciale per il controllo dei flussi migratori sulla rotta del Mediterraneo centrale, quella che arriva sulle nostre coste. Non a caso dopo il summit di La Valletta, 2015, era stato firmato il Processo di Khartoum – un accordo di esternalizzazione delle frontiere europee – con il governo islamista dell’ora deposto presidente Omar El-Bashir, già allora ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini perpetrati in Darfur.
Bashir aveva incaricato del controllo delle frontiere settentrionali le Forze di supporto rapido e aveva trasferito loro i mezzi ricevuti dall’Europa: formazione, veicoli e tecnologia avanzata. Il loro comandante, Mohamed Dagalo detto Hemeti, si era pubblicamente lamentato di non ricevere abbastanza per il lavoro che i suoi uomini stavano facendo per conto delle istituzioni europee.
Hemeti è uno dei due signori della guerra che stanno ora devastando il paese. L’altro è Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’esercito e presidente di fatto del paese, dietro cui si muovono gli alti papaveri del passato regime che vedono nella guerra l’occasione di ritornare al potere.
Da un paese nel caos, di fatto diviso in due e senza controllo del territorio se non per ragioni militari, ci si aspettano problemi per la stabilità di una vasta regione a cavallo tra l’Africa e il Medio Oriente, ma anche per la stessa Europa. I più gravi sono lo sviluppo incontrollato della criminalità organizzata transfrontaliera con l’aumento di traffici illeciti – persone, armi, droga – e il consolidarsi di gruppi terroristici di matrice islamica. I segnali sono già riconoscibili e considerati dagli analisti dell’area.
Forse l’Europa non parla di Sudan per non ricordare il fallimento degli accordi con un regime dittatoriale presto imploso. Ma la lezione non sembra essere servita. Ora cerca una sponda con altri governi simili di paesi che si affacciano sul Mediterraneo, affidando ad altri cercare soluzioni di problemi che le competono.
Processo di Khartoum
È una piattaforma di cooperazione per il controllo dei flussi migratori nata a Roma nel novembre 2104 e che coinvolge 40 paesi europei e dell’Africa settentrionale e orientale. La direzione dell’iniziativa è affidata alla Commissione europea alla Commissione dell’Unione Africana. Il Processo è stato fin da subito fortemente incentrato sul controllo interno delle frontiere da parte dei paesi africani. Ed è per questo che ha finanziato anche le RSF, milizia incaricata da Khartoum di presidiare i confini del paese, accusata di atti genocidari nel conflitto in corso e con un lungo storico di accuse di abusi e violazioni dei diritti umani.