Economisti ed esperti di sociologia concordano che alla radice delle proteste verificatesi in Kenya negli ultimi mesi vi sia la prolungata crisi economica in cui da anni versa il paese.
Al centro delle reiterate ed enormi manifestazioni avvenute sono stati i giovani della nuova generazione. Tecnicamente si definiscono appartenenti alla Gen Z (Generazione Zeta o Zoomer), non solo i giovani kenyani nati tra il 1997 e il 2012, ma quelli di tutte le nazioni africane.
In Kenya, tuttavia, hanno giocato un ruolo fondamentale come protagonisti delle protratte manifestazioni che hanno costretto di recente il presidente William Ruto a sciogliere il governo e archiviare una legge finanziaria che imponeva ingenti nuove tasse sulla popolazione.
I giovani si sono mobilitati in gran parte comunicando attraverso le nuove piattaforme digitali. Facebook, che è attualmente il social media più popolare nel paese, è utilizzato da oltre la metà dei kenyani.
Anche altre piattaforme, come WhatsApp, TikTok e X, hanno registrato un impressionante aumento nell’utilizzo, potenzialmente derivante dal loro ruolo sempre più importante come fonti di informazione durante il periodo delle proteste, iniziate il 25 giugno e che si sono protratte fino ad oggi.
Gli appartenenti alla Gen Z hanno la convinzione di aver subìto negli anni le conseguenze più pesanti della troppo lenta crescita economica del Kenya, e questa è stata la miccia che ha portato allo scoppio delle manifestazioni. Il malcontento, peraltro, andava covando nella popolazione in generale da molto tempo.
Decenni di rabbia e frustrazione
Numerosi analisti avevano previsto una reazione popolare, in seguito alla rabbia accumulata per anni, addirittura a partire dall’indipendenza, visto che alcuni dei pressanti problemi nazionali non erano mai stati adeguatamente affrontati.
Tra essi venivano citate l’imponente crescita della popolazione, il degrado del territorio, la corruzione e il predominio della politica sull’economia.
Secondo molti economisti, effettivamente, quando la crescita economica di un paese è troppo ridotta, in genere produce tassi di disoccupazione più elevati, livelli di reddito ridotti e investimenti in diminuzione. Il che fa abbassare inesorabilmente il tenore e la qualità della vita.
In effetti, negli ultimi 10 anni, tra il 2013 e il 2023, secondo gli esperti di economia, il tasso di crescita medio del Kenya è stato del 4,52%, cioè meno della metà del tasso di crescita del 10% previsto a suo tempo dal presidente Mwai Kibaki (presidente dal 2003 al 2013) nella sua Vision 2030.
L’obiettivo del piano di sviluppo nazionale nel governo di Kibaki era di trasformare il Kenya in un paese a reddito medio, che garantisse un’elevata qualità di vita a tutti i suoi cittadini, per l’appunto entro il 2030. Ma il Kenya appare oggi ben lontano da questo traguardo.
Il fatto che l’80% della popolazione del Kenya, ma anche quella di gran parte dei paesi del sub-Sahara, abbia meno di 35 anni, richiede che i governi adottino quanto prima approcci nuovi e innovativi per creare maggiori opportunità di lavoro.
Nel caso del Kenya, comunque, si possono menzionare vari fattori che hanno portato alle manifestazioni nella capitale e in molte città del paese, la cui violenta repressione di polizia ha causato almeno 50 morti, secondo Amnesty International.
L’epidemia del Covid-19 e il conflitto tra Ucraina e Russia hanno avuto un forte impatto negativo sull’economia e nel periodo prima delle elezioni, nel 2022, si erano già manifestati malumori per l’aumento del costo della vita e la crescita del debito estero.
Da candidato alla presidenza, Ruto aveva promesso di abbassare il costo della vita e di dare possibilità di lavoro ai giovani che lo aiutarono a vincere votandolo.
Di fatto, però, mesi dopo la sua elezione non si vide alcun reale miglioramento, benché l’economia avesse raggiunto un tasso di crescita del 4,9%, arrivando poi fino al 5,6% nel 2023. Un recupero insufficiente a ristabilire una condizione economica positiva.
Al tempo stesso è cresciuta la frustrazione del sempre più elevato numero di giovani istruiti.
Il governo di Mwai Kibaki aveva introdotto l’istruzione gratuita e il passaggio garantito dalla scuola elementare a quella superiore. Ciò contribuì ad alzare il livello di alfabetizzazione, ma al tempo stesso anche le aspettative degli studenti diplomati, che, non trovando opportunità adeguate di lavoro, si posero in prima linea nelle proteste, indirizzando la loro rabbia sui leader politici.
Molto più istruiti dei genitori e avvezzi all’uso dei nuovi media che facilitano l’aggregazione, superando le distinzioni tribali e il legame a partiti politici basati su di esse, li hanno resi capaci di coalizzarsi in massa nell’organizzare le manifestazioni anti-governative.
Per la maggioranza, l’alternativa all’impossibilità di un lavoro corrispondente al livello di studi raggiunto è stato accontentarsi di entrare nel settore informale, che occupa oltre l’80% delle attività a bassa retribuzione, scarso prestigio e nessuna sicurezza.
I giovani, inoltre, contrappongono la loro vita, spesso misera, a quella dei leader politici che ostentano ricchezza: automobili, orologi e viaggi di lusso, gioielli e collane d’oro che hanno suscitato l’ira di tanta gente che deve lottare per arrivare a fine mese.
Altra ragione che spiega le manifestazioni è la generalizzata situazione di corruzione; un problema mai risolto che è diventato una delle principali fonti di rabbia popolare.
I giovani della Gen Z ritengono infatti che sia tra le cause che contribuiscono a rubare il loro futuro. E la vedono protrarsi quotidianamente, dai bordi delle strade agli uffici; quella spicciola ma anche quella più deleteria, esercitata da imprenditori, ufficiali governativi e appaltatori che guadagnano ottenendo in modo fraudolento appalti e gonfiando i prezzi.
Altro motivo di malumore era stata la proposta dell’autorità kenyana delle Entrate di monitorare, spiandole, le transazioni finanziarie. I giovani, che usufruiscono del denaro mobile e dei servizi digitali più del resto della popolazione, anche nel settore informale hanno reagito fortemente, obiettando all’idea che le tasse sui servizi digitali dovessero essere aumentate.
Ultima, ma non meno importante fonte di frustrazione è stata la diffusa convinzione che, in realtà, a condizionare la politica del governo in Kenya siano il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, specie sulle decisioni riguardanti l’economia del paese, erodendone così la sovranità e l’indipendenza.
La Gen Z ha avuto in conclusione molti motivi per protestare, mobilitando la popolazione. Naturalmente non basta questo a risolvere la crisi economica del paese; è necessaria più che mai una ricucitura del rapporto tra governo e popolazione.
Ora i kenyani, soprattutto i giovani della Gen Z, attendono l’attuazione delle proposte economiche avanzate da William Ruto dopo il ritiro della legge finanziaria.