Rebecca Cheptegei aveva solo 33 anni. È morta ieri nel peggiore dei modi. Dopo giorni di agonia il suo corpo non ha resistito. A procurarle la morte è stato l’ex fidanzato che le aveva dato fuoco manifestando così un’incredibile crudeltà.
La storia drammatica della maratoneta ugandese – che era appena rientrata dai giochi olimpici di Parigi – ha fatto il giro del mondo. Non accade lo stesso per le migliaia di vittime che ogni anno vanno ad aggiungersi alla lista delle donne maltrattate e uccise dai parenti più prossimi, di solito il marito o il fidanzato.
Femminicidio è il termine giusto per questo crimine. La violenza domestica è molto diffusa nel continente africano anche se i numeri rappresentano relativamente la realtà, vista l’omertà che circonda questo fenomeno.
Molte donne non parlano per vergogna, perché magari la colpa ricade su di loro e perché la mentalità patriarcale le rende “oggetti” sottomessi. In questo contesto denunciare diventa difficile, quanti uomini che picchiano la moglie vanno in carcere?
Lo dice anche un’analisi statistica, a livello globale, di qualche anno fa: meno del 40% delle donne che subiscono violenza cercano aiuto di qualsiasi tipo. Quelle che lo fanno si rivolgono perlopiù alla famiglia e agli amici, e pochissime – meno del 10% – si rivolgono alle istituzioni formali, come la polizia e i servizi sanitari.
La maggior parte, dunque, subisce o cerca di allontanarsi. Cosa che non basta. Come infatti è stato per Rebecca, che quell’uomo pare lo avesse lasciato da tempo.
E ricordiamo che prima di lei altre tre atlete sono state uccise in circostanze simili in Kenya: la maratoneta detentrice del record mondiale sui 10 km, Agnes Tirop, uccisa a coltellate dal marito nel 2021 a 25 anni; pochi mesi dopo Edith Muthoni, 27 anni, anche lei accoltellata dal marito e la 28enne Damaris Muthee, strangolata dal compagno che poi si è dato alla fuga.
Proprio in nome di Agnes è stata fondata la Tirop’s Angels, un’organizzazione no profit costituita e seguita da atlete per combattere la violenza di genere e fornire assistenza alle donne in difficoltà. Ironia della sorte, proprio la settimana scorsa era stato inaugurato un nuovo ufficio per la campagna “Don’t touch”, non toccateci.
Chissà se Rebecca – che da anni si era trasferita in Kenya per stare più vicina al centro per gli allenamenti – si era mai confidata con le colleghe. Ciò che è davvero drammatico è che nel corso di sei mesi nel 2021, nell’affiatata comunità della corsa kenyana, tre atlete sono state assassinate dai loro partner.
In tutto questo agisce sia il tentativo di controllare queste donne, così autonome ma nello stesso tempo prigioniere della cultura patriarcale, sia quello di usarle per la loro fama e per le possibilità economiche che possono rappresentare.
Rebecca, come si presume tutti gli atleti africani, con la sua attività sportiva manteneva la famiglia d’origine oltre che i suoi due figli. Queste donne, così dotate e che fanno tanti sacrifici per allenarsi in posti non sempre adeguati, devono anche sostenere un grosso peso psicologico e materiale.
Intanto i numeri ufficiali raccontano di quanto sia diffusa la violenza domestica. Secondo i dati forniti da UN Women, nel 2022 l’Africa ha registrato il maggior numero di donne uccise da partner intimi o familiari, con 20mila dei 48mila casi globali.
In Kenya il 41% delle donne sposate ha subito violenza fisica, rispetto al 20% di quelle non sposate. Anche in Uganda la situazione è sconcertante. A gennaio di quest’anno un uomo di 48 anni, che nella vita fa il pastore, uno dei tanti in Africa che senza formazione alcuna predica la Bibbia, ha ucciso brutalmente la moglie 22enne incinta.
Un’indagine nazionale del 2020 sulla violenza contro le donne e le ragazze, la prima nel suo genere condotta nel paese, ha rivelato statistiche allarmanti. Quasi tutte le donne e le ragazze ugandesi (95%) hanno subito violenza fisica o sessuale, o entrambe, da parte del partner o di altre persone fin dall’età di 15 anni.
L’indagine ha inoltre rivelato che il 43% delle ragazze si sposa entro i 18 anni, e il 33% delle ragazze è stato costretto al primo incontro sessuale sotto i 15 anni. I casi di violenza di genere, sono stati 5mila all’anno, nel periodo compreso tra il 2018 e il 2020.
L’impatto della crisi climatica sulle donne
Proprio pochi giorni fa, mentre Rebecca agonizzava in un letto d’ospedale, l’UNFPA (l’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva) ha diffuso una proiezione relativa all’impatto del cambiamento climatico sulla violenza d genere.
Secondo tali proiezioni milioni di donne e ragazze nell’Africa subsahariana “sperimenteranno livelli catastrofici di violenza domestica perché il mondo non riesce a fare progressi sulla crisi climatica”.
Il rapporto Climate change impacts and intimate partner violence in sub-saharan Africa, mette in relazione l’aumento delle temperature globali e i tassi crescenti di violenza da parte dei partner.
Nello scenario peggiore, vale a dire se le emissioni aumenteranno, le temperature saliranno di oltre 4°C e lo sviluppo socioeconomico subirà uno stallo, il numero di donne che subiscono violenza da un partner intimo nell’Africa subsahariana quasi triplicherà rispetto ai 48 milioni del 2015, arrivando a 140 milioni nel 2060.
Gli studi dimostrano che le temperature estreme e le ondate di caldo possono aumentare l’aggressività e la violenza da parte del partner. Il collasso dell’agricoltura, la scarsità d’acqua, l’insicurezza abitativa, i disastri naturali, rappresentano un ulteriore fattore scatenante, che porta ad un aumento dei conflitti e del rischio che donne e ragazze subiscano abusi fisici ed emotivi.
Se tutto questo è vero e persino il cambiamento climatico impatta sul genere femminile più che su quello maschile, questo non riduce le responsabilità di società maschiliste e violente le cui istituzioni quando non agiscono vanno definite semplicemente complici.