Resta in carcerein Egitto Alaa Abdel Fattah. Ancora. Le autorità del Cairo danno un nuovo colpo al movimento che chiede riforme democratiche e libertà fondamentali, stabilendo che una delle figure più importanti della rivoluzione del 2011 non possa lasciare la cella, nonostante lo scorso 29 settembre abbia finito di scontare la sua pena. Il noto attivista per la democrazia e blogger è stato condannato nel 2021 a 5 anni di reclusione per “diffusione di notizie false”.
L’arresto e l’incarcerazione erano però avvenute il 29 settembre del 2019. Per la legge egiziana, se la condanna viene spiccata, vanno conteggiati anche i mesi di detenzione cautelare, 24 nel caso di Alaa, che avrebbe quindi dovuto varcare il cancello del carcere domenica scorsa. E invece i giudici li hanno ignorati: uscirà nel 2026, quando suo figlio Khaled – nato proprio nel 2011- avrà 15 anni.
Ma perché Abdel Fattah è stato condannato? Nell’autunno 2019 in Egitto si tengono nuove proteste di massa: migliaia di manifestanti chiedono dalle strade di tante città le dimissioni del presidente Abdel Fattah Al-Sisi. Alaa pubblica un post su Facebook in solidarietà con i dimostranti, e denuncia le torture esercitate dagli apparati di sicurezza, e finisce in carcere per “false notizie”.
Il governo di Al-Sisi infatti, memore del fatto che i cortei di piazza Tahrir di otto anni prima avevano portato alle dimissioni il presidente Hosni Mubarak, reagì con lacrimogeni, pallottole di gomma e un’ondata di arresti: oltre 4.300 secondo le organizzazioni per i diritti umani. Tra questi vi fu anche Abdel Fattah, che dal 2011 aveva già trascorso vari periodi privato della libertà per via del suo impegno civile.
La madre in sciopero della fame
Così, per richiamare attenzione internazionale, la madre Laila Soueif, 68 anni, ha deciso di iniziare lo sciopero della fame. Berrà, ha detto, solo acqua e sale per sostenere la pressione sanguigna, e quotidianamente pubblicherà sui social i parametri vitali per tenere traccia dell’impatto del digiuno forzato sul suo stato di salute.
«Non smetterò finché mio figlio non sarà libero» ha assicurato la professoressa di matematica dell’Università del Cairo, che in questi anni si è battuta ogni giorno insieme alle figlie Mona e Sanaa. Sua l’immagine che rimbalzò su varie testate internazionali quando nel 2020, in piena pandemia di Covid-19, trascorse diverse notti sul marciapiede davanti l’ingresso della prigione di Tora per esigere dalle autorità penitenziarie notizie del figlio, al quale venivano negate le visite dei legali e un trattamento “dignitoso”.
Amnesty International denunciò la «detenzione arbitraria» di Alaa a fronte di un «processo iniquo», e poi «maltrattamenti e torture». Dopo una campagna mediatica, nel novembre 2022 Abdel Fattah venne trasferito nella struttura di Wadi al-Natroun, nel nord del Cairo. «Condizioni carcerarie e di salute migliori», commenta Amnesty, a cui più di recente si aggiunge il fatto che Abdel Fattah ha avuto «materiale di lettura, televisione e corrispondenza scritta.
Tuttavia, le autorità carcerarie continuano a negargli aria fresca e luce del sole – da cinque anni può fare esercizio fisico solo all’interno». Ma, soprattutto, niente «avvocato e niente visite consolari da parte delle autorità britanniche». Dal 2021 infatti Alaa Abdel Fattah ha la cittadinanza britannica. Ciò ha permesso alla famiglia di ricercare il sostegno del Regno Unito per la scarcerazione di un suo connazionale all’estero.
L’evanescente sostegno britannico
Giovedì scorso, in una conferenza stampa a Londra, le sorelle Mona e Sanaa hanno denunciato tuttavia «scarsi progressi» nella vicenda nonché il rifiuto del segretario agli Affari esteri David Lammy di riceverle. Dopo tale denuncia, il Foreign Office ha fissato un incontro per oggi. La famiglia, in realtà, avrebbe nel laburista Lammy un vecchio alleato.
A partire dal 2022 il politico britannico decise di fare sua la causa di Alaa: quando era ancora deputato d’opposizione, esortò il governo a fare pressioni sul Cairo per ottenere visite consolari e infine il rilascio, usando «la leva», disse, «della partnership commerciale britannica da 4 miliardi con l’Egitto».
Mona e Sanaa lo hanno ricordato giovedì, suggerendo ulteriori azioni che il ministero degli Esteri dovrebbe mettere in atto, come esercitare la propria influenza presso il Fondo monetario internazionale riguardo ai prestiti che l’Egitto, in crisi economica da anni, sta negoziando, oppure sospendere gli investimenti diretti.
60mila come lui
Abdel Fattah, ha avvertito la madre, «sperava che il governo britannico avrebbe garantito il suo rilascio. Se non lo farà, temo che mio figlio passerà tutta la vita in prigione».
Anche Amnesty, alla vigilia del 29 settembre, ha avvertito che Alaa rischia di finire nella cosiddetta «porta girevole»: un meccanismo con cui la magistratura egiziana riporta in carcere il detenuto «formulando nuove accuse false, identiche o simili alle precedenti, anche dopo che un tribunale ne ha ordinato la scarcerazione o che abbia completato il periodo di detenzione».
Un sistema parte di quella «repressione sistemica» che dall’arrivo del generale Al-Sisi al potere terrebbe in carcere almeno 60mila prigionieri e prigioniere di coscienza.
«La nostra famiglia è devastata dal diniego delle autorità egiziane di rilasciare mio fratello», ha dichiarato la sorella, Sanaa Seif. «Chiediamo al governo di Londra di intervenire affinché possa riabbracciare il figlio: il suo rilascio significherebbe la vittoria per la democrazia e i diritti umani nella regione».