Fare i conti con la storia ma soprattutto, con i creditori internazionali e con il proprio debito estero. Succede in Zimbabwe, dove il governo di Harare si appresta a pagare i primi 20 milioni di dollari di risarcimenti destinati ad alcuni dei coltivatori che persero la terra a partire dal 2000, nell’ambito di un controverso piano di riforma fondiaria promosso dall’allora presidente Robert Mugabe.
L’iniziativa è fondamentale per diverse ragioni: le espropriazioni dei terreni, per lo più ai danni dei proprietari bianchi che le avevano ottenute con la forza grazie alla dominazione coloniale e alla segregazione razziale, sono ricordate come una delle politiche più rilevanti e decisive dell’era Mugabe, sia per la piega violenta che assunsero e le conseguenti ripercussioni internazionale sia per le loro conseguenze economiche.
Non solo però, lo scioglimento dei nodi relativi al risarcimento per chi perse la terra è uno dei pilastri di un programma che lo Zimbabwe sta portando avanti con la Banca africana di sviluppo (AfDB) per riacquistare la fiducia dei creditori internazionali e poter così risolvere il pesantissimo impasse del debito, che pesa come un macigno sulla debole economia di Harare.
Andando per ordine: l’esborso dei primi 20 milioni è stato annunciato dal ministro delle finanze Mthuli Ncube. Le risorse sono previsto nel budget statale per il 2024 e sono parte di un più ampio pacchetto da 55 milioni di dollari. Il fondo è parte di una iniziativa per la gestione del debito e dei suoi arretrati, di cui si è accennato e di cui si dirà più avanti. Secondo quanto affermato rilanciato dalla stampa locale e internazionale, i beneficiari di questo primo flusso di denaro saranno coltivatori bianchi di origine straniera – per lo più europea – e circa 400 contadini neri.
Gli espropri
Non furono infatti solo i possidenti bianchi a perdere la terra durante il cosiddetto Fast Track Land Reform Program (FSTLRP), ovvero la fase più acuta delle espropriazioni di terra condotte dal governo Mugabe.
Questa misura mirava a invertire la distribuzione fondiaria profondamente diseguale che aveva caratterizzato il dominio coloniale britannico e poi anche il governo razzista della minoranza bianca che prese il potere nel 1965 per durare fino al 1979. Per dare un’idea, nel 1980 l’1% bianco della popolazione occupava circa il 45% della terra, di cui il 75% si trovava nelle aree più fertili dello Zimbabwe. Seimila famiglia di possidenti bianchi controllavano la stragrande maggioranza della terra più feconda del paese.
Il piano lanciato da Mugabe attirò però moltissime critiche. Secondo diverse denunce, a implementare il programma sul campo furono milizie legate al partito di governo e veterani della guerra di liberazione, che non lesinarono in intimidazioni e violenze fino a diversi casi di uccisioni. Il processo di redistribuzione fu puoi arbitrario e venne strumentalizzato politicamente: buona parte degli ettari di terra passati sotto il controllo dello stato furono assegnati a membri o persone vicine alla Unione Nazionale Africana di Zimbabwe – Fronte Patriottico (ZANU-PF), il partito che sotto varie sigle ha governato il paese dal 1980 a oggi.
Sul banco degli imputati ci sono anche gli effetti economici di questa politica, che non tenne conto del grado di preparazione, la disponibilità di risorse e l’esperienza di molte delle persone che si ritrovarono per la prima volta a possedere della terra. Secondo alcuni studi, la produzione agricola dello Zimbabwe, un tempo asse trainante dell’economia locale, diminuì del 30% in quattro anni.
Di recente comunque, diversi studiosi dello Zimbabwe e stranieri stanno cercando di decostruire la narrazione dominante secondo cui il programma di espropriazioni fu sostanzialmente l’origine di tutti i mali che affliggono lo Zimbabwe, mettendo l’accento sugli aspetti più riusciti di quel tentativo di riforma.
L’isolamento internazionale
Quel che è certo è che le violenze commesse durante le espropriazioni contribuirono a creare con un clima di forte diffidenza nei confronti del governo Mugabe da parte della comunità internazionale occidentale. fino alle sanzioni imposte nel 2003 da Usa, Regno Unito e Unione europea. L’isolamento internazionale ha contribuito a peggiorare la situazione del debito. E qui, i due temi si saldano: lo Zimbabwe è incapace di pagare il servizio sul suo debito da circa 20 anni e per questo non può beneficiare dei programmi di finanziamento da paesi membri del Club di Parigi e dalle grandi istituzioni internazionali.
Secondo i dati del governo, lo stock del debito esterno del paese sfiora i 13 miliardi di dollari – oltre il 50% del Pil – di cui più del 75% è costituito da arretrati. Come spiega l’African Sovereign Debt Justice Network, il blocco nei finanziamenti dai creditori tradizionali citato ha spinto inoltre lo Zimbabwe a cercare fondi con modalità sempre più rischiose.
Affidandosi di più ai creditori privati a esempio, che prestano a tassi più alti e speculano, o siglando accordi garantiti dalle revenue sulle materie prime, che sono per loro natura pericolosi per via delle conseguenze in termini di impatto socio-ambientale e trasparenza.
Riparazioni in cambio del debito
Nel dicembre 2022 la Banca africana di sviluppo e lo Zimbabwe hanno lanciato una piattaforma di dialogo con i maggiori creditori nell’ottica di risolvere una volta per tutte il problema del debito. Uno dei pilastri di questa iniziativa è la risoluzione della questione delle riparazioni.
È quindi in questo ambito che è stato lanciato il piano da decine di milioni di dollari di cui si è scritto ma in cui soprattutto è stato raggiunto un accordo da 3,5 miliardi di dollari per le riparazioni nei confronti dei proprietari terrieri bianchi a cui fu tolta la terra dal 2000 in poi. L’intesa è stata critica per varie ragioni e anche per non aver coinvolto le persone che all’epoca lavoravano in questi appezzamenti, per lo più migranti africani rimasti senza occupazione a causa degli espropri (senza essere neanche coinvolti nelle ridistribuzioni che a questi espropri fecero seguito).
Il patto sul maxi risarcimento è stato raggiunto nel 2022 ma Harare non dispone delle risorse necessarie per dargli seguito. La Banca multilaterale africana sta quindi sostenendo il paese nella ricerca di strumenti finanziari in grado di fornire il denaro necessario per i pagamenti senza creare nuovo debito. «Il processo di dialogo – ha detto il ministro Ncube – sta funzionando e alla fine ci aiuterà a saldare i nostri arretrati». Parallelamente, Harare sta cercando anche l’aiuto del Fondo monetario internazionale (FMI) e negoziati per l’avvio di un Staff Monitored Program per la ristrutturazione del debito sono in corso.
Molti comunque, i nodi politici che ancora segnano lo scenario delle Zimbabwe e le possibilità che il paese possa reinserirsi nel sistema finanziario internazionale. Il governo del presidente Emmerson Mnangagwa è accusato di essere autoritario e di reprimere il dissenso da più parti mentre la validità delle scorse elezioni del 2023 che hanno permesso al capo dello stato di essere riconfermato non è sostanzialmente riconosciuta da buona parte della comunità internazionale occidentale.