Da diversi mesi Sudan e Sud Sudan stanno cercando un modo per riprendere le esportazioni di petrolio, bloccate dal 6 febbraio a causa della guerra che da un anno e mezzo lacera il Sudan.
Dopo vari incontri bilaterali, nei giorni scorsi una delegazione di alto livello del governo di Juba è arrivata a Port Sudan, sede provvisoria del regime militare sudanese e porto commerciale strategico sul Mar Rosso da cui partivano i carichi di greggio sudsudanese, trasportati attraverso il Sudan da un oleodotto, oggi bloccato.
Molti impianti petroliferi e snodi chiave restano infatti ancora sotto il controllo dei paramilitari Forze di supporto rapido (RSF) che combattono contro l’esercito sudanese.
Pare dunque assai improbabile che la situazione possa sbloccarsi solo grazie a colloqui tra Juba e Port Sudan, a meno che l’esercito non decida di optare per interventi militari per riconquistare il completo controllo degli oleodotti.
E infatti, anche al termine di questi nuovi incontri bilaterali sono risuonate solo dichiarazioni vaghe, che paiono rivolte più a rassicurare gli investitori stranieri che a sbloccare lo stallo.
Il ministro dell’energia e del petrolio del Sudan, Mohieddin Naeem, ha dichiarato, riporta Radio Dabanga, che “entrambe le parti hanno concordato i requisiti tecnici per l’oleodotto, aggiungendo che un workshop congiunto avrebbe coinvolto esperti dei due paesi per garantire una ripresa regolare delle operazioni”.
Ma è chiaro che per le RSF mantenere il controllo dell’export di greggio rappresenta una delle priorità nella sua strategia di guerra. Che difendono anche con la propaganda.
A conferma di questo le ultime dichiarazioni, postate lo scorso 14 ottobre su X da El Basha Tebeig, consigliere del comandante delle RSF Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemeti, secondo cui le entrate petrolifere sarebbero state utilizzate dall’esercito per sostenere lo sforzo bellico.
Le entrate derivanti dalla vendita di greggio sono rilevanti per entrambi i paesi, ma in particolare per il Sud Sudan, per il quale rappresentano l’80% del PIL e il 98% del budget operativo, cioè quello con cui vengono pagate le spese correnti, secondo gli ultimi dati, risalenti al 2020.
I vantaggi per il Sudan derivano invece dall’incasso delle royalty che ammontano complessivamente a poco più di 24 dollari al barile.