I delta ostaggi del petrolio - Nigrizia
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Le false promesse di un passaggio a un’economia green si scontrano con la realtà dei nuovi mega progetti estrattivi in aree naturalistiche di Uganda, Senegal e Namibia
I delta ostaggi del petrolio
Invece che calare dopo Accordo di Parigi nel 2016, gli investimenti nell’estrazione di combustibili fossili sono aumentati in tutta l’Africa. Uno sfruttamento che ora minaccia direttamente anche il cuore di grandi ecosistemi ricchi di biodiversità come i delta dell’Okavango e del Saloum
24 Ottobre 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 7 minuti
Effetti dell'estrazione petrolifera nel delta del Niger (Credit: Minority Rights)

In solidarity for a green word. È il titolo che si è voluto dare alla 29esima edizione della COP29 – Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – che quest’anno sarà ospitata a Baku, in Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre. Un titolo ottimistico che punta alla solidarietà come buona pratica e modello di lavoro per affrontare il tema del secolo.

Infatti, se la crisi climatica è qualcosa che potrebbe farci sembrare vittime passive degli eventi, in realtà ci vede molto più protagonisti e soggetti attivi di quanto pensiamo o vorremmo ammettere. Anche perché quelli che sono gli effetti di questa crisi planetaria sono provocati o si vanno ad associare ai danni provocati dall’uomo.

I motivi sono, come sempre accade, di ordine economico. Il rispetto dell’ambiente, e la valutazione delle sofferenze che questo può subire, vengono in secondo piano rispetto a profitti a nove zeri.

Grandi delta in pericolo

Prendiamo qui ad esempio quattro casi specifici: i delta del Saloum in Senegal, del Niger in Nigeria e dell’Okavango in Namibia e Botswana, guidati dalle informazioni contenute nel progetto Protect the Deltas, e un’ampia area dell’Uganda che include il Lago Victoria e la riserva naturale delle Murchison Falls.

Tutte sono minacciate da progetti di esplorazione ed estrazione di petrolio e gas. Eppure tutti gli incontri mondiali che hanno per tema la salvaguardia dell’ambiente insistono sul fatto che il futuro del pianeta dipende da una rapida eliminazione dei combustibili fossili.

Le aree in questione – soprattutto i tre delta – hanno molto in comune. Sono ecosistemi ricchi di biodiversità che sostengono milioni di persone e ospitano (chissà per quanto ancora) una fauna selvatica spettacolare.

Il delta del Saloum, patrimonio mondiale dell’UNESCO è una delle più grandi zone umide Ramsar dell’Africa occidentale. Quest’area con oltre 200 isole e isolotti, oggi si trova ad affrontare rischi significativi derivanti da progetti offshore su larga scala.

I tre progetti più significativi riguardano trilioni di metri cubi e migliaia di barili al giorno di estrazione di gas e di petrolio, progetti guidati dall’americana Kosmos Energy, dalla britannica BP, dall’australiana Woodside Energy e dalla senegalese Petrosen.

Attività che rappresentano una minaccia esistenziale per il delta del Saloum, sede del Parc National du Delta du Saloum e di oltre 100mila persone, prevalentemente delle comunità serer e mandingo. Comunità che fanno affidamento sulle risorse naturali del delta, con la pesca e la raccolta dei frutti di mare come fonti primarie di reddito.

Le attività di estrazione andranno a sommarsi a quelli che sono già effetti visibili del cambiamento climatico: l’erosione costiera, la distruzione delle foreste di mangrovie, la perdita di terreni coltivabili, la salinizzazione dell’acqua e un significativo calo degli stock ittici. Situazioni che hanno esacerbato la povertà e la migrazione forzata.

La compagnia petrolifera canadese ReconAfrica e il suo partner norvegese, BW Energy, operano invece a monte del delta dell’Okavango, nel nord-est della Namibia. È lì che stanno cercando il petrolio. La licenza di esplorazione riguarda 6,3 milioni di acri della Namibia e 2,2 milioni di acri del Botswana nord-orientale.

L’Okavango, altro patrimonio mondiale UNESCO, è un delta interno unico nel suo genere e si estende fino all’Angola. È uno dei pochi delta al mondo che non sfociano nel mare e ospita alcune delle specie più a rischio di estinzione al mondo, tra cui grandi mammiferi come ghepardi, rinoceronti bianchi, rinoceronti neri, leoni.

Il bacino fluviale è inoltre la fonte d’acqua primaria per un milione di persone. Quanto danneggerà l’aria, l’acqua, la fauna, le comunità l’attività di estrazione?

Inoltre la compagnia è stata aspramente criticata per i suoi metodi: la mancata o inadeguata consultazione delle comunità locali, l’intimidazione verso chi si oppone al progetto, l’offerta di posti di lavoro in cambio del “silenzio”, il mancato ottenimento dei permessi idrici e fondiari richiesti dalla legge, la trivellazione senza diritti legali e lo spianamento illegale di strade attraverso aree protette.

Il monito nigeriano

Il delta del Niger, dal canto suo, è noto alle cronache da decenni, anche per la figura dello scrittore Ken Saro-Wiwa che insieme ad altri otto compagni di lotta fu impiccato, il 10 novembre 1995, per le sue attività di denuncia del degrado ambientale provocati dalla britannica Shell nella terra degli ogoni.

E ancora oggi la società civile chiede alla Shell e alle altre compagnie petrolifere – tra cui anche l’italiana ENI – di ripulire decenni di inquinamento e pagare un risarcimento adeguato alle comunità.

Il delta del Niger, rimane un caso studio del potere distruttivo dell’industria petrolifera, ed è oggi probabilmente la regione produttrice di petrolio più inquinata al mondo. Una recente indagine ha stimato che quest’area ha subito l’equivalente di fuoriuscita di petrolio del disastro della Exxon Valdez ogni anno, da 50 anni.

È dagli anni Cinquanta del secolo scorso che ha subito la maledizione del petrolio, da quando cioè la Shell ha cominciato ad operarvi. La compagnia è stata ripetutamente accusata di inquinamento e razzismo ambientale, collusione con i militari e potenziale complicità nell’omicidio dei “nove dell’Ogoniland”.

Vari sono stati in questi anni i processi intentati dai familiari delle vittime, in alcuni casi ci sono stati risarcimenti, ma qualche corte ha dato ragione alla Shell.

Nel 2022 la compagnia ha pagato 15 milioni di euro alle comunità nigeriane colpite da molteplici fuoriuscite di petrolio ed altri risarcimenti di questo tipo sono stati effettuati laddove sono stati dimostrati inquinamenti irreversibili delle fonti d’acqua e distruzione dell’habitat.

Tuttavia – denunciano attivisti ed esperti – con una mossa progettata per evitare di pagare bonifiche e risarcimenti, e ridurre i costi, molte compagnie petrolifere internazionali, tra cui proprio la Shell, stanno vendendo le loro attività nel delta del Niger e spostando la loro produzione offshore.

Proprio quest’anno Shell ha annunciato la vendita della sua partecipazione nelle operazioni onshore. Ma il governo nigeriano ha negato questa possibilità.

Paradisi a rischio anche in Uganda e Mozambico

Altra situazione assai critica è il progetto East African Crude Oil Pipeline (EACOP) della francese TotalEnergies che prevede sia le estrazioni in Uganda – si parla di 400 pozzi, anche in zone che sono riserve naturali -, sia la costruzione di un oleodotto riscaldato di 1.443 chilometri che attraverserà zone importanti della biodiversità globale, come l’Albertine Rift, allo scopo di  far arrivare il petrolio alla costa della Tanzania.

L’Albertine Rift fa parte della Great Rift Valley occidentale, si trova a cavallo dei confini della Repubblica democratica del Congo, Rwanda, Burundi, Uganda e Tanzania e si estende su una distanza di 1.000 km.

E anche in Mozambico, a Capo Delgado, le attività della TotalEnergies per l’estrazione del gas naturale liquido hanno provocato danni all’ambiente e alle persone. Gli studi scientifici sulle implicazioni delle attività di ricerca, perforazione ed estrazione non mancano.

Così come non mancano le analisi sulla gravità della situazione ma anche sull’ipocrisia delle classi politiche e dei decisori internazionali che da una parte affermano di combattere il cambiamento climatico dall’altro promuovono i combustibili fossili.

«La realtà è che l’Africa è diventata una nuova frontiera per lo sviluppo dei combustibili fossili. Ciò viene portato avanti dal capitale finanziario globale, dalle multinazionali, dai governi delle economie sviluppate e, peggio ancora, dalle organizzazioni multilaterali che affermano di essere alla guida dei finanziamenti per le azioni sul clima», afferma il ricercatore e attivista Kola Ibrahim.

Da quando l’Accordo di Parigi è entrato in vigore, gli investimenti nello sviluppo di petrolio, gas e carbone sono aumentati in tutta l’Africa. Al 2022 in Africa esistevano 964 progetti di combustibili fossili, di cui 782 attualmente operativi o in costruzione e altri 111 approvati. Per la maggior parte si tratta di aziende del Nord del mondo.

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