Decolonizzare l’aiuto pubblico allo sviluppo è fondamentale, ma la strada da fare è ancora tanta. Insomma, la consapevolezza c’è, ma trasferire risorse e potere alle realtà locali dei paesi partner del sud globale è altra cosa e bisogna superare ancora diversi ostacoli. È la conclusione principale a cui giunge un questionario promosso da InfoCooperazione, maggiore piattaforma di comunicazione e confronto del settore nel nostro paese. L’iniziativa è stata lanciata a fine settembre ma i risultati sono stati resi noti in settimana.
Al questionario hanno preso parte più di 350 operatori e operatrici del settore. Variegata la composizione dei rispondenti alle domande, anche se la stragrande maggioranza, ben il 73%, proviene da organizzazioni della società civile (OSC). Per il resto, il 10% fa parte di istituzioni pubbliche ed enti locali, il 5% di università ed enti di ricerca, il 3% di organizzazioni internazionali e l’1% da imprese, mentre l’8% è costituito da liberi professionisti e consulenti.
Andando ai dati chiave si scopre che l’85% delle persone che hanno risposto alle domande «ritiene molto importante che il sistema della cooperazione metta in campo strategie e azioni concrete per favorire la leadership locale». Allo stesso tempo però, ben il 68% di questo stesso campione valuta come «basso» il grado di attivazione degli attori della cooperazione italiana rispetto alla decolonizzazione del comparto e la localizzazione dell’aiuto. Per il 30% questo grado è medio mentre solo per il 2% il livello di mobilitazione su queste questioni è da ritenersi alto.
Urge una premessa. Con decolonizzare la cooperazione e localizzare l’aiuto si intendono dei processi, per lo più complementari e convergenti, che puntano a una maggiore condivisione del potere e delle risorse con le organizzazioni dei paesi partner. Si tratta quindi di far arrivare una maggiore quota dei fondi alle realtà della società civile ma anche di coinvolgerle a livello di progettazione e più in generale lungo tutto il processo decisionale. Azioni che rientrano perfettamente nell’approccio che già da tempo si sta facendo avanti nel settore della cooperazione, fin dalla riforma suggellata dalla legge 125 del 2014.
L’obiettivo a lungo termine è superare la tradizionale dicotomia donatore/beneficiario verso una sempre maggiore e sostanziale equità. Parole chiave che, almeno nella teoria, ritornano anche nel Piano Mattei per l’Africa. Fin dalle premesse, l’iniziativa inaugurata dal governo Meloni mira a instaurare un partenariato «paritario» e «non predatorio» con il continente. Nella pratica però, gli interrogativi e le critiche non mancano.
Tornando ai contenuti del questionario, per le persone intervistate le sfide più importanti da affrontare per raggiungere gli obiettivi di decolonizzazione/localizzazione sono la creazione di partenariati equi e paritari e il cambiamento culturale di tutti gli attori, fondamentali per il 48% dei rispondenti, e poi l’accesso ai fondi da parte delle organizzazioni locali, centrale per il 44%.
Interessante notare che un 33% degli operatori ascoltati ha indicato anche la decolonizzazione del linguaggio come uno dei nodi centrali. Quali invece gli ostacoli? Si torna alla questione del potere. Per quasi il 68% dei partecipanti all’iniziativa infatti, il problema principale è la dipendenza finanziaria delle realtà dei paesi partner e le condizioni imposte dai donatori. La fragilità delle strutture locali è il secondo aspetto più sottolineato, dal 40% degli intervistati.
Il dato relativo alla dipendenza finanziaria spiega forse perchè per il 50% dei rispondenti sono gli enti donatori gli attori che più si devono impegnare per decolonizzare la cooperazione, seguiti dai decisori politici al 25% e le stesse realtà della società civile, al 20%.
Emergono anche diverse note positive, dal questionario di InfoCooperazione. Alla domanda, «la tua organizzazione/ente ha già avviato un dibattito» sulle questioni al centro dell’inziativa, più del 54% ha risposto di si. Dato che sale al 63% se si passa alle azioni concrete. Andando più nello specifico, il 70% delle organizzazioni, riporta il portale sulla cooperazione, stanno lavorando sul riconoscimento e valorizzazione delle leadership e delle risorse umane locali, il 57% a rendere i partenariati più equi e paritari, il 46% a favorire l’acceso ai fondi da parte delle organizzazioni locali. Il 37 % delle organizzazioni infine sta promuovendo un cambiamento culturale e di queste il 32% lo sta facendo anche tramite la “decolonizzazione” del linguaggio e della comunicazione.
Tra le principali raccomandazioni che i partecipanti al questionario hanno allegato alle loro risposte ci sono infine il sostegno a una riforma dei meccanismi di finanziamento «incentivando modelli pluriennali e più flessibili che permettano alle OSC locali di pianificare e attuare strategie a lungo termine, piuttosto che focalizzarsi su obiettivi a breve termine dettati dai donatori» e la promozione di «una maggiore collaborazione e co-creazione di progetti tra OSC internazionali e locali.
Gli intervistati – si legge su InfoCooperazione – propongono la creazione di spazi di dialogo in cui i partner locali possano contribuire attivamente alla progettazione e alla gestione delle iniziative, anziché essere semplici esecutori di progetti pianificati esternamente».
Il nodo dei dati
Restano però dei nodi critici di fondo. A partire da come poter effettivamente quantificare la localizzazione dell’aiuto. I dati che potrebbero aiutare a capire come stanno le cose e come cambiarle non sono di facile accesso e comprensione. Nigrizia ne ha parlato con Francesco Petrelli, un’esperienza trentennale nel mondo della cooperazione, portavoce di Oxfam Italia e animatore della Campagna 070. «I due aspetti da considerare sono la fonte dei dati sull’aiuto pubblico allo sviluppo e la loro struttura» premette Petrelli.
«Le cifre sono fornite dal comitato per l’aiuto allo sviluppo (DAC, dall’acronimo inglese development assistance committee) dell’Ocse, che le invia ai 31 paesi membri in via preliminare ogni anno ad aprile. La lettura di queste cifre non è semplice. Soprattutto – evidenzia Petrelli – sono solo alcuni i dati che si possono disaggregare. Possiamo sapere, a esempio, quante delle risorse provengono dall’aiuto pubblico allo sviluppo italiano che viene utilizzato come aiuto bilaterale e quanto multilaterale e quante invece sono impiegate nell’accoglienza dei rifugiati, o quali sono i paesi o i temi su cui sono impiegate ».
L’aspetto relativo all’accoglienza, specifica Petrelli, «è molto rilevante, perchè si tratta di soldi che non varcano i nostri confini e che pure vengono considerati aiuti pubblici allo sviluppo internazionale, con tutta una serie di ripercussioni sulla quantità di fondi usati effettivamente nei paesi partner». Allo stato attuale però, sottolinea l’esperto, «non è possibile capire quante risorse finiscono ai partner locali. Manca in realtà anche un indicatore di disaggregazione da cui partire, quindi siamo lontani dal poter disporre di dati disaggregati per rispondere a questa domanda».
Il discorso è più ampio. «È necessario continuare a insister per avere un monitoraggio sempre più affidabile dell’efficacia dell’aiuto pubblico allo sviluppo, che è finanziato dai soldi dei contribuenti. Dal 2012 esiste la Global Partnership for Effective Development Co-operation, un’organizzazione internazionale di governi e organizzazioni che lavora solo su questo. Migliorare la trasparenza e i meccanismi di accountability quale premessa per la qualità e l’efficacia degli aiuti è una priorità essenziale in questo momento per le organizzazioni della società civile e le ONG».