Tra le preoccupanti informazioni che arrivano dal Darfur, numerose fanno pensare che il conflitto abbia ormai preso precise connotazioni etniche, le stesse che hanno caratterizzato quello che ha devastato la regione nel primo decennio di questo secolo.
Pare che le Forze di intervento rapido, Rsf, abbiano ripreso il progetto e il modo di operare delle milizie janjaweed da cui provengono direttamente. Con una differenza. All’inizio degli anni 2000 agivano per conto del governo islamista di Khartoum, guidato dal presidente Omar El-Bashir, deposto nell’aprile del 2019. Ora agiscono per conto proprio.
L’obiettivo, tuttavia, sembra essere ancora lo stesso: liberare il territorio dalla popolazione autoctona, di origine africana, per far posto a gruppi di origine saheliana, con cui esistono similitudini culturali e spesso legami etnici, clanici e familiari e perciò percepiti come i migliori alleati nel controllo del territorio e delle sue risorse.
Sono i gruppi le cui milizie sono state associate al conflitto, i mercenari che la leadership delle Rsf, che controlla ben poco anche i propri uomini, non controlla per niente e che si sono macchiati di gravissimi episodi contro la popolazione civile, in Darfur e altrove. Distruzione di villaggi, massacri, razzie di beni, compresi reperti storici, che hanno rifornito mercati illegali, anche oltre i confini del Sudan.
Chi governa
I gruppi autoctoni – fur, quello maggioritario, masalit e zaghawa – per di più, sono visti come precisi avversari sul piano politico e militare, perché da sempre associati agli ex movimenti di opposizione armata che ora combattono al fianco dell’esercito nazionale, Saf. I maggiori sono il Sudan Liberation Movement, Slm, ala Minni Minawi e il Justice ed Equality Movement, Jem. Ora Minni Minawi è il governatore della regione, mentre il comandante del Jem, Gibril Ibrahim, è il ministro delle finanze del governo, di fatto con base a Port Sudan.
I primi a costituire un obiettivo sono stati i masalit, stanziati in maggioranza nel Darfur occidentale. Il conflitto era scoppiato da una settimana, quando le Rsf attaccarono Genina, la capitale, una città abitata da mezzo milione di persone, non lontana dal confine con il Ciad. «Quello che è successo a Genina è indescrivibile (…) ovunque ci sono stati massacri. Tutto è stato programmato e condotto in modo sistematico». Sono le parole di Saad Abdel-RahmanBarh, sultano del sultanato Dar Masalit, leader e rappresentante della comunita dei masalit del Darfur.
Tre ondate di attacchi
Secondo un rapporto del sultanato (amministrazione tradizionale che in Sudan affianca e dialoga con l’amministrazione governativa), tra il 24 aprile e il 12 giugno 2023 ci furono tre ondate di attacchi in cui furono uccise più di 5mila persone e ne furono ferite più di 8mila. Episodi che si configurano come pulizia etnica e genocidio, secondo il rapporto del sultanato, ma non solo. Gli episodi sono continuati anche nei mesi successivi.
Nel novembre 2023 una pubblicazione dell’Onu titolava: Six days of terror in West Darfur: Ethnically-based attacks on the rise (Sei giorni di terrore nel Darfur occidentale: in aumento gli attacchi su base etnica). Un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) cita una stima del gruppo di esperti incaricati dall’Onu di indagare sul conflitto in Sudan, secondo il quale nel corso del 2023 sarebbero stati uccisi a Genina dalle 10mila alle 15mila persone. Il dato si basa su informazioni di intelligence.
Intanto, centinaia di migliaia di masalit, e non solo, sono fuggiti in Ciad. Si ammassano in campi profughi dove manca quasi tutto. Sarebbero ormai almeno 600mila e continuano ad arrivare.
Un flusso continuo verso il Ciad
Alla metà di ottobre il Sudan Tribune riporta le dichiarazioni di un leader zaghawa, Adam Mezza, che racconta l’attacco a 33 villaggi nella zona di Kutum nel Nord Darfur, 120 chilometri a nord di El Fasher, la capitale sotto attacco delle Rsf e assediata da maggio. I villaggi erano abitati in gran parte da popolazione zaghawa. L’attacco ha provocato un flusso di 40mila persone verso il Ciad. L’Unhcr stima in 25mila i nuovi profughi nel Ciad orientale solamente nella prima settimana di ottobre. Nella zona è violento lo scontro tra le Rsf e l’esercito sostenuto dalle forze congiunte darfuriane, che insieme controllano ormai quasi solo El Fasher. Dunque, il massacro di Kutum potrebbe essere solo il primo di una serie.
Negli stessi giorni il Sudan Tribune ha pubblicato un articolo dal titolo: Sudan’s Fur tribe rejects new Rsf-backed “Emirate” in Central Darfur. Il gruppo etnico dei fur del Sudan rifiuta un nuovo “emirato” sponsorizzato dalle Rsf nel Darfur centrale).
Lo scontro sull’emirato
Attaccato in questo caso, dunque, è il territorio dei fur. Nell’articolo si dice che il comandante delle milizie Rsf nel Darfur centrale, generale di brigata Mohamed Adam Bangoz, ha presenziato alla fondazione di un emirato per gli Awlad Baraka and Mubarak, un ramo del gruppo arabo dei salamat, stanziati nella Repubblica Centrafricana. Alcuni membri si trovavano da tempo in una zona a sud di Zalingei, capitale del Darfur Centrale. Dopo lo scoppio del conflitto il loro numero è molto aumentato a seguito della campagna di reclutamento delle Rsf. A quanto pare, ora faranno parte della popolazione del Darfur, con un loro territorio e una loro amministrazione tradizionale.
L’avvenimento ha ovviamente suscitato una forte opposizione da parte dei fur. Un loro autorevole leader, intervistato dal Sudan Tribune, ha dichiarato: «Rifiutiamo categoricamente la nascita di un nuovo emirato per etnie arabe nel Darfur centrale». L’intervistato ha chiesto l’anonimato per questioni di sicurezza. Un segno preciso della delicatezza dell’argomento.
Altri leader e attivisti fur, e non solo, si sono detti preoccupati dai ripetuti tentativi di cambiare la demografia della regione e di rafforzare gruppi esterni alle spese della popolazione locale, un aspetto sempre più chiaro e rapido della guerra civile sudanese in Darfur.