Nel 2023 sono state almeno 190mila le cittadinanze italiane riconosciute per ius sanguinis, secondo quanto pubblicato dal Sole 24 Ore che ha cercato, tramite dati Istat, di dare una stima del fenomeno. Richieste queste, che da tempo mettono in crisi uffici comunali, consolati e tribunali. Insomma, tutte quelle realtà che hanno a che fare con le istanze di discendenti di persone italiane che vorrebbero accedere al diritto di cittadinanza via sangue.
Un boom che spesso, però, è legato a carteggi vecchi, risalenti agli anni della grande emigrazione che avvenne tra l 1876 e il 1925. Così, dopo aver proposto, nella legge di bilancio, di rendere più onerosa la procedura, prevedendo un contributo economico più alto per presentare la domanda, ora arriva una direttiva del ministero dell’interno alle prefetture che vuole dare un ulteriore indirizzo rispetto ai quesiti che riguardano il riconoscimento della discendenza.
Riferendosi alla ininterrotta trasmissione della cittadinanza e alla discendenza di chi rivendica il “nostro status civitatis”, la direttiva fa rifermento a una disposizione di legge del 1912, la 555, che fa il punto sui figli e figlie minorenni bipolidi (cioè con doppia cittadinanza), quelli che acquisiscono sia la cittadinanza iure soli (in base al suolo, alla terra dove si è nati) che quella del genitore, ius sanguinis.
Ci sono genitori che, naturalizzandosi nel paese, scelgono di non essere più italiani e, di fatto, fanno perdere la cittadinanza anche al figlio o figlia minorenne che abbiano manifestato, alla maggiore età, di non volerla riacquistare.
In tal caso, si legge, «le linee di trasmissione sono da considerarsi interrotte laddove l’ascendente in questione non abbia riacquistato la cittadinanza italiana». Il mancato riacquisto fa decadere, infatti, la possibilità di trasmettere lo status civitatis alla discendenza. L’avo che fa domanda sarà dunque obbligato a «produrre prova dell’avvenuto riacquisto» prima della nascita della persona discendente.