Sudan: l’oro che finanzia la guerra - Nigrizia
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Rapporto del Sudan Transparency and Policy Tracker
Sudan: l’oro che finanzia la guerra
Le Forze di intervento rapido di Hemeti e il governo militare del generale al-Burhan controllano miniere aurifere i cui proventi alimentano il conflitto. Un metallo facile da trasportare, richiede investimenti limitati per l’estrazione e ha un’enorme richiesta sul mercato. Per questo è appetito anche da gruppi e paesi stranieri
12 Novembre 2024
Articolo di Bruna Sironi
Tempo di lettura 7 minuti
Le forze di supporto rapido sudanesi mostrano lingotti d'oro sequestrati da un aereo atterrato all'aeroporto di Khartoum nell'ambito di un'indagine su un possibile contrabbando. Fotografia: Mohamed Nureldin Abdallah/Reuters

Recentemente il centro di ricerca e advocacy sudanese Sudan Transparency and Policy Tracker  (“Segugio” della trasparenza e delle politiche sudanesi) ha pubblicato un rapporto di grande interesse per capire come le risorse del paese giochino un ruolo fondamentale nel sostenere il conflitto.

Il documento, dal titolo Fueling Sudan’s War – How Gold Exports and Smuggling Are Prolonging Sudan’s War” (Alimentare la guerra del Sudan – Come l’esportazione e il contrabbando dell’oro stanno prolungando la guerra in Sudan) è frutto di un lavoro in comune con la piattaforma interattiva New Features Multimedia.

La ricerca chiarisce come l’oro – estratto in diverse zone del paese, controllate in parte dalle Forze di intervento rapido (Rsf), e in parte dall’esercito (Saf), i due belligeranti – abbia un ruolo decisivo nel sostenere il conflitto. Infatti si tratta di un bene facilmente trasportabile, che richiede investimenti limitati per l’estrazione e ha un’enorme richiesta sul mercato. Circostanza, quest’ultima, che facilita il rafforzarsi di vecchie alleanze e, all’occorrenza, lo stringersi di nuove, tutte in chiave di finanziamento del conflitto.

La “corsa all’oro”

È cominciata in Sudan tra il 2009 e il 2010, quando sono stati scoperti filoni auriferi interessanti in diverse parti del paese; quello più ricco e promettente nella zona del Jebel Amir in Darfur. Da quel momento, l’oro ha gradualmente sostituito il petrolio – i cui giacimenti si trovano in gran parte nel territorio del Sud Sudan, diventato indipendente nel 2011 – come maggior risorsa del paese.

All’inizio, dice il rapporto, il settore ha costituito una fonte di reddito per centinaia di migliaia di giovani disoccupati, che hanno estratto il minerale in modo artigianale. Poi il governo dell’allora presidente Omar El-Bashir – deposto nell’aprile del 2019 da un colpo di stato di palazzo orchestrato per limitare l’impatto di una rivoluzione popolare in pieno svolgimento – è intervenuto per trarre il massimo benificio dal settore, sia sfruttando l’estrazione artigianale sia cercando di modernizzarlo per aumentare la produzione, coinvolgendo nell’affare compagnie minerarie regionali e internazionali.

Wagner ed Hemeti

Tra le altre, particolare importanza hanno assunto quelle russe del gruppo Wagner, che hanno agito in società con il comandante delle Rsf, Mohamed Dagalo, conosciuto con il soprannome di Hemeti, e di altri membri della sua famiglia, che fonda proprio sugli affari nel campo dell’estrazione e del commercio dell’oro la propria ricchezza. In particolare, Hemeti e famiglia hanno controllato fin dal 2017 i giacimenti del Jebel Amir, nel Nord Darfur, loro terra d’origine.

Fin dai primi giorni dello scoppio del conflitto, le Rsf si sono impadronite anche dell’oro, e dell’argento, che si trovavano presso la raffineria governativa di Khartoum. Secondo dati del ministero delle risorse minerarie, si trattava di 1,3 tonnellate di oro non raffinato, per un valore stimato in 150 milioni di dollari, e di 15 tonnellate di argento pronte per l’esportazione. Da allora, le Rsf hanno preso il controllo di diversi altri siti auriferi e impianti per la lavorazione dei minerali che continuano a essere attivi. Ma è impossibile avere dati credibili sulla loro produzione e sulla commercializzazione del metallo.

Nel 2017, 107 le tonnellate prodotte

Nel 2017, ultimo anno del regime del deposto presidente El-Bashir, per cui ci sono dati ufficiali, Khartoum produsse 107 tonnellate d’oro, collocandosi tra i 10 maggior produttori africani. Poi la produzione diminuì a causa dell’instabilità politica che portò allo scoppio del conflitto, nell’aprile del 2023.

Nel 2022, ultimo anno di relativa pace, si ebbe una produzione di 41,8 tonnellate. Ma, dice il rapporto, pare che si sia trattato solo di una diminuzione del minerale passato dalle istituzioni governative competenti, mentre aumentava il controllo diretto da parte dell’esercito e delle Rsf. Si stima che, in quel periodo, dal 50% all’80% dell’oro venisse commercializzato illegalmente, al di fuori del controllo governativo.

Gli alti e bassi della produzione

Secondo dati ufficiali del ministero delle risorse minerarie del governo di fatto di Port Sudan – il governo militare guidato dal comandante dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan – con lo scoppio della guerra la produzione crollò per alcuni mesi (2 tonnellate nei primi sei mesi di conflitto). Alla fine del 2023, tuttavia, si era già in parte ripresa (6,3 tonnellate). Nell’agosto di quest’anno aveva raggiunto le 29,2 tonnellate per un valore di 1,86 miliardi di dollari. Per la fine di quest’anno, secondo stime del presidente della Compagnia mineraria sudanese, sarà possibile esportare oro per 2,182 miliardi di dollari. Dati che indicano che anche il governo di fatto controlla diversi siti auriferi e impianti di raffinazione, in particolare nello stato costiero del Mar Rosso, e in quelli del Fiume Nilo e del Sudan settentrionale.

In queste zone, saldamente controllate dall’esercito e, dunque, relativamente sicure, hanno ricominciato a operare anche alcune compagnie minerarie straniere. Tra le altre, dice il rapporto, la Mangem della famiglia reale del Marocco, le russe Meroe Gold e la Kush for Exloration and Production, la prima di proprietà degli Africa Corps, subentrati al disciolto gruppo Wagner, controllati direttamente dal Cremlino.

Le diverse strade dell’oro

L’oro prodotto nelle zone controllate dalle Saf e quello prodotto nelle zone controllate dalle Rsf prendono strade ben diverse per la commercializzazione.

Le Rsf esportano attraverso il Ciad – dove Hemeti ha legami familiari con esponenti governativi – la Repubblica Centrafricana – dove aveva, e ha, strettissimi legami con il gruppo Wagner/Africa Corps – e la Libia, dove mantiene un’alleanza con il generale Haftar. Tutto oro che non compare nei rapporti ufficiali. In cambio la milizia riceve forniture di armi e combustibile.

Il governo di fatto, invece, usa il suo oro per consolidare vecchie alleanze o per stringerne di nuove. L’uso “diplomatico” del minerale è andato a rafforzare in particolar modo i legami già esistenti con la Russia, cui ha permesso di avere risorse per sostenere la guerra in Ucraìna, bypassando le sanzioni occidentali. L’oro sarebbe pagato in rubli, che ritornerebbero immediatamente a Mosca in pagamento di armi e munizioni. Di contratti nel settore minenario si è parlato in tutti i recenti e numerosi incontri tra i governanti russi e quelli sudanesi.

Forum Cina-Africa

Si è parlato di oro anche durante l’ultimo Forum per la cooperazione Cina-Africa, dove il presidente di fatto, al-Burhan, ha incontrato l’associazione delle compagnie minerarie cinesi.

Il rapporto approfondisce anche le rotte, legali e illegali, di commercializzazione. Accanto a quella ormai conosciuta, che passa dagli Emirati Arabi Uniti – usata da sempre dalle Rsf – è emersa una via che passa per l’Egitto, usata dai commercianti delle zone controllate dal governo di fatto che non possono più servirsi degli Emirati. Si tratta per lo più di traffici non legali resi possibili da una vasta rete di sudanesi residenti in Egitto e da agenti di frontiera egiziani.

I commercianti egiziani ne hanno un forte guadagno: in Sudan un grammo di oro a 21 carati costa 170mila sterline sudanesi (circa 265€); in Egitto è venduto a 3 milioni e 270mila sterline sudanesi (intorno a 5,130€).

Non è sorprendente, perciò, che chiedano di essere pagati in oro anche i trafficanti di esseri umani, che hanno finora facilitato l’emigrazione in Egitto di oltre un milione di profughi sudanesi.

Stante la situazione descritta, gli autori del rapporto si appellano alla comunità internazionale affinché l’oro sudanese venga dichiarato minerale che finanzia il conflitto e perché le sue transazioni vengano punite in base ai regolamenti vigenti. Chiedono inoltre sanzioni per le compagnie e gli individui che ne facilitano il commercio con chi ne è già colpito perché accusato di avere responsabilità nell’aver fomentato il conflitto e nel sostenere la sua continuazione.

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