Il 25 novembre ricorreva la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Nonostante la crescente sensibilità nei confronti di questa lotta nel panorama globale, molte legislazioni in tutto il mondo continuano di fatto a negare la gravità di quanto commesso da abusanti, stupratori e assassini, offrendo loro non di rado la totale impunità.
Non c’è sviluppo equo e duraturo senza che questo sia accompagnato da leggi adeguate, ricordò durante tutta la sua carriera Wangari Maathai, nota attivista keniana per l’ambiente e premio Nobel per la Pace nel 2004. Ma per procedere verso l’eliminazione della violenza di genere, in troppi paesi queste leggi tardano ad arrivare. Un nuovo rapporto di Equality Now mette in luce come la normativa in materia di numerosi paesi, inclusi molti africani, rimanga del tutto inadeguata nel proteggere le donne.
Una panoramica globale e africana
Globalmente, il 35% delle donne subisce violenze fisiche o sessuali nel corso della vita. In Africa, il tasso è ancora più alto. Raggiunge il 44% in alcune regioni. Tuttavia, la definizione legale di stupro in molti paesi è vaga o incompleta, con norme che enfatizzano la “morale” piuttosto che l’integrità fisica della vittima. In nazioni come Sud Sudan, Tanzania ed Etiopia, lo stupro coniugale è esplicitamente permesso, in totale violazione del principio del consenso.
Legislazioni e lacune: esempi concreti
La mappa legislativa che emerge dal rapporto è assai variegata. In alcuni paesi emerge la consapevolezza del concetto di consenso, laddove le legislazioni partono da lì per definire lo stupro. Altri però mantengono norme arcaiche che offrono di fatto delle facili scappatoie legali agli aggressori.
In Guinea Equatoriale, ad esempio, il Codice Penale prevede per lo stupro una punizione che equivale a una “reclusione minore,” una terminologia che riduce la gravità del reato e manda un messaggio inquietante: lo stupro non è considerato un crimine serio. Ancora più problematico è il caso del Sud Sudan, dove la legge riconosce il diritto del marito a imporre rapporti sessuali alla moglie, negando di fatto alle donne sposate la possibilità di protezione legale contro lo stupro.
Situazioni simili si riscontrano in Tanzania, dove lo stupro coniugale è punibile solo in caso di separazione legale, e in Etiopia, dove il concetto stesso di stupro coniugale è escluso dalla definizione legale. In Guinea, invece, una clausola legale consente la riduzione della pena qualora il comportamento della vittima sia considerato “contributivo” al crimine, veicolando l’idea pericolosa che il comportamento delle donne possa renderle corresponsabili degli abusi subiti.
Ma non sono solo le definizioni o le pene a rappresentare un problema. In paesi come Madagascar, dove il 14% delle donne dichiara di aver subito una violenza sessuale nell’arco della vita, lo stupro è spesso risolto attraverso accordi extra-giudiziali. Le famiglie delle vittime accettano compensazioni economiche, quando va bene. L’alternativa è che costringano le donne a sposare i loro aggressori. Questo accade perché le vittime, spesso minorenni, temono ritorsioni o il giudizio della comunità. La pressione sociale, unita alla scarsa fiducia nel sistema giudiziario, rende la denuncia un atto quasi impossibile per molte donne.
Esempi positivi
Volendo guardare il lato positivo, ci sono anche paesi che hanno iniziato a fare passi avanti. In Sudafrica, la legge prevede pene severe per lo stupro aggravato, con l’istituzione di un Registro nazionale degli autori di reati sessuali. Questo strumento include informazioni sui colpevoli per evitare che possano accedere a ruoli professionali che li mettano in contatto con persone vulnerabili, come bambini o disabili.
Anche in Sierra Leone esistono misure per punire chi tenta di risolvere i casi di stupro fuori dai tribunali, sebbene l’applicazione di queste norme sia ancora limitata.
Altre legislazioni presentano contraddizioni che rendono il panorama ancora più complesso. In Rwanda, ad esempio, sebbene la legge riconosca lo stupro coniugale, consente alla vittima di ritirare la denuncia per “salvaguardare l’unità familiare”: una norma che compromette pesantemente l’efficacia del sistema giudiziario. (AB)