«Il fenomeno delle baby gang interessa alcune realtà, di italiani e non solo stranieri. La vera emergenza nazionale è il problema educativo, con un abbandono scolastico molto più alto della media europea. La vera emergenza è che sono stati messi troppi soldi sulla sicurezza e niente sull’integrazione. La vera emergenza è il sistema poliziesco».
Non usa giri di parole e va dritto al punto Giancarlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes, organo Cei, e arcivescovo della diocesi Ferrara-Comacchio. Un commento secco, che non lascia margini di dubbio, cui si aggiunge una sorta di prescrizione: «La vera emergenza è cambiare la narrazione e avviare processi dove la cittadinanza è un elemento importante».
Il commento di monsignor Perego arriva dopo quello del vicepremier Matteo Salvini ai microfoni di Rtl. Il leader della Lega, commentando i fatti di Corvetto, il quartiere milanese dove, dopo la morte di Ramy Elgam, bande di ragazzi hanno messo a ferro e fuoco le strade, ha affermato: «Il problema delle baby gang delle seconde generazioni non integrate è un’emergenza nazionale».
Aggiungendo: «C’è un problema drammatico su queste benedette seconde generazioni, sulle baby gang di figli di cittadini stranieri, ragazzi nati in Italia, ma che non si sentono parte di questo paese». Da qui la sottolineatura di Perego, non solo sulla composizione delle cosiddette baby gang, ma sullo stato dell’abbandono di quelle generazioni e soprattutto sul fatto che non si sentano parte.
«Se non si fa un passo in avanti in percorsi di mediazione culturale, ci sono ragazzi, anche di 12-13 anni, che non hanno alternativa all’andare in giro – ha affermato -. L’integrazione e la cittadinanza sono le vie da percorrere per fare sentire questi ragazzi “parte della città”».
L’abbandono della scuola e la strada, le realtà citate da Perego, sono supportate dai dati: l’Italia è il quinto paese su 27 stati europei per abbandono scolastico; e, se si vanno a guardare le cifre, si scopre che mentre la quota di giovani italiani che fuoriescono anticipatamente dal proprio percorso scende al 9%, rispetto al 10,5% medio nel 2023, tra quelli stranieri al contrario il dato sale al 26,8%. Quasi tre volte quello dei loro coetanei.
I dati, i numeri raccontano, spesso smentiscono le narrazioni governative e soprattutto, se non vengono analizzati, rischiano di rimanere cifre astratte, incapaci di narrare le storie che stanno dietro anni di abbandono. Come sottolinea lo scrittore Gianni Biondillo su Repubblica, mettendo in evidenza come non sia una banlieue, Corvetto, né si possa continuare a descrivere le bande di ragazzi come questioni etniche.
D’altra parte, lo stesso padre di Ramy Eklgam, che aveva solo 19 anni, lo dice: «mio figlio era più italiano che egiziano». Ma questi ragazzi e ragazze cui non viene riconosciuta la cittadinanza, che quindi non voteranno, continuano a essere marchiati come “secondi”.
Perché possono passare anni e anni, si può nascere e crescere in Italia, non andar mai nel paese di origine dei propri genitori, ma ciò che rimani sempre è l’essere “straniero”, “seconda generazione”. Anche se ti chiami Paola Egonu, anche se sei italiana e campionessa di pallavolo. Le cronache lo raccontano, così come i commenti di una certa classe politica.
E poi c’è la distanza che non è solo fisica ma sociale, tra i centri delle città e le cosiddette periferie, che periferie però non sono più.
Non solo perché sono prossime ai centri storici, dove ora sorgono mercatini di Natale e vetrine addobbate, ma perché spesso nella povertà che si espande (lo racconta l’ultimo report della Caritas in cui il dato della povertà assoluta interessa oltre 5,7 milioni di persone, quasi un decimo della popolazione italiana) sono inclusi anche i centri, i quartieri un tempo della cosiddetta borghesia.
Ed è a questa povertà, abbandono scolastico, rabbia da esclusione che (lo dice Perego) si continua a rispondere implementando un “sistema poliziesco”, l’idea che la sicurezza sia solo armata; che i poveri debbano essere allontanati dai luoghi di vetrina; i centri pattugliati.
Senza comprendere che per disarmare occorrono risposte di presa in carico, di cura delle diseguaglianze, di politiche di integrazione e ridistribuzione delle responsabilità.
Perché se non ci si cura delle periferie, le risposte di frustrazione e rabbia ricadranno ovunque, su tutte e tutti. Lo scrive bene Jonathan Bazzi, altro scrittore, su La Stampa: «Chi non accetta di rimanere un corpo-che-non-conta cercherà il modo per prendersi un po’ della luce negata, con i mezzi che trova, con la rabbia che prova».
E si può non condividere i modi in cui questa rabbia e frustrazione si sfogano, ma se non se ne arginano le cause, non sarà farne emergenza cui dare risposte securitarie che cambierà il disordine delle cose.