Il 2024 è stato anno di numerose elezioni in Africa e nel mondo. Nel continente si sono svolte quattordici consultazioni per capi di stato o di governo. Nel 2023 erano state otto. Mentre Nigrizia va in stampa, si devono ancora aprire i seggi in due paesi: Ghana e Namibia.
Quanto avvenuto finora fornisce elementi a sufficienza per dare un giudizio su quel grande stress test per la democrazia che è stato il 2024. Un anno in cui si sono iniziate a intravedere trasformazioni fondamentali di segno positivo.
Esistono obiezioni sensate a questa valutazione. Tre di queste hanno il volto di Kais Saied, Abdelmadjid Tebboune e Paul Kagame. Storie molto diverse quelle rispettivamente dei presidenti di Tunisia, Algeria e Rwanda. Ma hanno un minimo comun denominatore nella riconferma alle urne ottenuta anche dopo aver fatto tabula rasa di opposizioni e società civile.
Dalle urne è emerso, tuttavia, anche molto altro. Per capirne di più può essere utile un report-sondaggio sulla democrazia in Africa che Afrobarometro ha pubblicato a luglio. Si legge che è in calo la fiducia verso questo sistema di gestione del potere, ma ritenuto ancora il migliore nonostante tutto.
La conclusione a cui si arriva è che se la democrazia è piena solo di principi, in realtà è vuota. Dentro ci vanno messi cibo e sicurezza. Ma anche il rispetto dei diritti politici, umani, la garanzia di elezioni giuste, la lotta alla corruzione.
Ne sa qualcosa Macky Sall, che in Senegal è stato costretto dalla magistratura a svolgere elezioni che aveva, in modo controverso, posticipato per poi perdere il posto a favore di due leader – l’attuale presidente Bassirou Diomaye Faye e soprattutto il premier Ousmane Sonko – che fino a poco prima che venissero aperti i seggi erano addirittura in carcere.
Le legislative senegalesi del 17 novembre scorso hanno poi certificato il decesso politico dell’ex presidente.
Ma il caso politico più eclatante è quello sudafricano: le elezioni del maggio scorso hanno segnato la fine del monopolio dell’African national congress (Anc).
Assediati dalle accuse di corruzione e inefficienza, i padri della lotta all’apartheid hanno dovuto dire addio alla maggioranza assoluta che avevano dalle prime elezioni libere, nel 1994. Ora, anche se il presidente è lo stesso Cyril Ramaphosa, si ritrovano in una coalizione che ne limita per forza di cose la presa sul potere.
Appena più a nord, anche in Botswana il partito che governava dall’indipendenza nel 1966 è stato fatto fuori dal voto popolare in 24 ore.
È noto come Gaborone sia un’isola felice di buona governance, ma fan ben sperare vedere 60 anni di potere che si spengono in una pacifica stretta di mano fra presidente uscente ed entrante.
Mente scriviamo infuria, invece, la crisi post-elettorale nel vicino Mozambico. Ci sono tumulti e repressione, certo. Ma a emergere è anche una società civile che, come mai prima, sembra voler andare oltre un sistema politico che prosegue anche qui da 50 anni e che ormai non fa altro che reprimere e impoverire.
Nell’Africa meridionale, i movimenti di liberazione non hanno più assegni in bianco da spendere: ciò che non ottengono adesso conta molto di più di ciò che hanno raggiunto in passato. E le liberazioni non finiscono mai: stavolta, magari, a loro spese.