Il 2023 anno nero per i diritti in Africa - Nigrizia
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Il rapporto di Human Rights Watch evidenzia l'indebolimento della diplomazia transazionale nella protezione dei diritti umani
Il 2023 anno nero per i diritti in Africa
L’attenzione maggiore è sulle crisi in Etiopia, in Sudan e nel Sahel, ma anche sui crescenti abusi di potere di governi autoritari, contro i quali i leader globali non sono riusciti a prendere posizioni forti. A farne le spese, ancora una volta, sono giornalisti e appartenenti ai gruppi più fragili, come le donne e i membri delle comunità LGBT+
15 Gennaio 2024
Articolo di Antonella Sinopoli (da Accra)
Tempo di lettura 6 minuti

Dalla libertà di espressione agli abusi sulle donne, dalle discriminazioni verso particolari gruppi sociali al malfunzionamento della giustizia. Queste e tante altre le violazioni dei diritti umani evidenziate dal report 2024 di Human Rights Watch.

Lavoro che prima di entrare nel merito di ogni singolo paese evidenzia la tendenza dell’ultimo anno: i leader globali non sono riusciti a prendere posizioni forti per proteggere i diritti, spesso con conseguenze mortali.

C’è poi un altro dato su cui si sofferma l’anticipazione al report, quella che viene definita indignazione selettiva e, conseguentemente, il modo di agire della diplomazia transazionale dei governi di fronte ad alcuni dei peggiori conflitti e crisi della storia recente. Un’operazione selettiva di cui fanno le spese le persone e i loro diritti.

Per l’Africa l’attenzione è posta alle crisi in Etiopia, in Sudan e nel Sahel. Con le situazioni più complesse in Burkina Faso dove una delle cause è la violenza dei gruppi terroristici di matrice islamista; in Ciad dove molte proteste sono culminate in centinaia di arresti e altrettante vittime; in Mali, dove la violenza dei gruppi armati islamisti ha esacerbato una crisi umanitaria già grave, con 8,8 milioni di persone che necessitano di assistenza e migliaia di sfollati.

In Niger il colpo di stato del luglio 2023 ha anche significato la riduzione della libertà di espressione e molti giornalisti indipendenti hanno subìto arresti e minacce. La Nigeria rimane un paese dove gli abusi – di cui spesso sono vittime le donne, rapite, stuprate, sottomesse – sono perpetrati da elementi delle forze governative e dai numerosi gruppi armati.

Nella Repubblica democratica del Congo è sempre alta la tensione nel Nord e Sud Kivu, aree dove opera il gruppo armato M23, sostenuto dal Rwanda, che continua la sua offensiva contro le truppe governative con lo scopo di controllare un territorio ricchissimo di minerali.

Per rimanere in Rwanda questo paese sembra avere una doppia faccia. Mentre in patria aumenta la repressione del dissenso – con sparizioni forzate, aggressioni, minacce, uccisioni, nonché molestie contro cittadini rwandesi che vivono all’estero, percepiti come critici del governo – il paese è diventato sempre più prominente sulla scena internazionale, guidando istituzioni multilaterali e diventando uno dei maggiori contributori africani di truppe di mantenimento della pace.

Eppure, l’ONU e i partner internazionali – denuncia il report – hanno costantemente mancato di riconoscere la portata e la gravità delle sue violazioni dei diritti umani. In Camerun, il conflitto tra il governo anglofono e i separatisti francofoni (e le violenze perpetrate da una parte e dall’altra) è diventato cronico.

E permane irrisolto anche il conflitto nel nord del Mozambico, cosa che si ripercuote sulle libertà e la quotidianità dei cittadini. Mentre nella Repubblica Centrafricana si è registrato un aumento del numero di rapimenti – di personale della Nazioni Unite, di militari, ma anche di civili – a scopo di riscatto.

In Egitto il termine attivista è diventato sinonimo di “terrorista” ed è così che chi critica il governo – giornalisti compresi – va ad affollare le carceri del paese. In condizioni tra l’altro terribili e senza la certezza di un processo, meno che mai di un processo giusto. E se tra l’aprile 2022 e settembre 2023, le autorità hanno rilasciato circa 1.700 prigionieri, nello stesso periodo ne sono stati arrestati più di 4.500.

Anche in Tunisia, il presidente Kais Saied ha costantemente indebolito il sistema giudiziario, represso gli oppositori politici e preso di mira la libertà di espressione e di stampa.

In Libia sono costanti le violazioni dei diritti umani e gli abusi da parte di gruppi armati e milizie, poiché le élite politiche e una miriade di “quasi-autorità” competono per la legittimità e il controllo del territorio, a quasi 12 anni dall’inizio della transizione politica seguita alla caduta di Muammar Gheddafi.

Per passare al Corno d’Africa, molto precaria la situazione dei diritti umani in Etiopia dove forze di sicurezza del governo, milizie e gruppi armati non statali sono responsabili di abusi sistematici e l’impunità è la norma. Nonostante un accordo di cessazione delle ostilità (novembre 2022) le violazioni dei diritti contro i civili nel Tigray sono continuate, provocando un numero enorme di sfollati e richiedenti asilo.

In Eritrea lo scorso anno si sono “celebrati” i 30 anni al potere del presidente/dittatore Isaias Afwerki e ancora non si respira aria di cambiamento. Neanche, ovviamente, per quanto riguarda la coscrizione militare obbligatoria per donne e uomini e a tempo indefinito.

E anche in Somalia – investita dalla siccità a periodi regolari – le vittime delle azioni di al-Shabaab e delle risposte dell’esercito, rimangono i civili.

In quasi tutti i paesi si registra inoltre un aumento dell’omofobia alimentata dai governi (vedi i casi Ghana e Uganda che vogliono leggi più punitive nei confronti degli LGBT+).

Tra le criticità esaminate dal rapporto di HRW, c’è – dicevamo – quella che riguarda il Sudan la cui popolazione, si afferma: ha sofferto a causa dell’assenza di attenzione, impegno e leadership a livello internazionale per affrontare gli abusi diffusi nel conflitto del paese.

Come ricordiamo, nell’aprile 2023 è scoppiato una guerra civile: la lotta per il potere tra il leader delle forze armate, generale Abdel Fattah al-Burhan, e il capo delle Forze di supporto rapido (RSF), generale Mohamed “Hemeti” Hamdan Dagalo. Combattimenti che hanno provocato massicci abusi contro i civili, in particolare nella regione del Darfur.

I loro abusi rispecchiano quelli commessi negli ultimi due decenni da forze fedeli a entrambi i generali e per i quali nessuno ha pagato. La Corte penale internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per crimini commessi in passato in Darfur.

Tuttavia, le autorità sudanesi ne hanno ripetutamente ostacolato gli sforzi e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ha fatto quasi nulla per contrastare l’intransigenza del governo. L’impunità che ne è derivata ha alimentato ripetuti cicli di violenza, compreso l’attuale conflitto.

Nel 2023, quando i paesi africani nel Consiglio di sicurezza includevano Gabon, Ghana e Mozambico, l’ONU ha chiuso la sua missione in Sudan su insistenza del governo sudanese, ponendo fine a quel poco che restava della capacità delle Nazioni Unite di proteggere i civili e i cittadini.

Le richieste di dare priorità alla responsabilità presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – presieduto quest’anno dal Marocco – hanno incontrato tra l’altro una forte resistenza da parte degli stati arabi e sono state respinte dai governi africani.

E mentre leader si contendono il potere (o vogliono tenerlo a vita) è aumentata ovunque la disuguaglianza economica, così come la rabbia per le decisioni politiche che lasciano milioni di persone a lottare per la sopravvivenza.

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