Il viso di Spike Lee, icona del Festival di Cannes 2021, segna un’edizione ricca di titoli che però non ha premiato film africani. Spike Lee, primo afroamericano a ricoprire il ruolo di presidente, ha guidato una giuria (presente anche Mati Diop, regista di Atlantiques e nipote del celebre Djibril Diop Mambety) che sembra non essersi fatta influenzare da ideologie o tendenze.
Palma d’oro alla francese Julia Ducournau per Titane, Miglior regia per Annette di Leos Carax ed un ex-aequo ad Apichatpong Weerasethakul e Nadav Lapid per il Premio della giuria.
In concorso due i titoli africani. Dal Ciad, Lingui di Mahamat Saleh Haroun , storia di una madre che lotta per aiutare la figlia quindicenne ad abortire in un paese dove l’aborto è vietato per legge. Il film oltre ad omaggiare la sorellanza, il coraggio e la resilienza delle donne, è un ritratto visivo e sonoro di N’Djamena che usa ellissi narrative e una raffinata astrazione per inserire i corpi femminili nello spazio urbano.
Haut et Fort di Nabil Ayouch, è invece ambientato nella scena Hip hop di Casablanca e racconta di un ex-rapper che trasmette la sua passione per la musica ad un gruppo di giovani di un centro culturale della periferia Sidi Moumen. Risultato di un lavoro di quattro anni che mescola finzione e documentario, è anche ricerca di uno sguardo cinematografico naturalista che possa seguire da vicino i corpi in movimento, uscendo dai canoni classici della commedia musicale.
Autobiografico, politico, sociale, il film rivendica il diritto di voce delle giovani generazioni delle periferie delle grandi città, che siano in Marocco, in Francia o negli Stati Uniti. Hip hop e arte, quindi, come alternativa universale alla violenza ma anche come via di introspezione e guarigione.
La Settimana della critica ha premiato Feathers dell’egiziano Omar El Zohairy, tragicomica storia di un uomo che durante il compleanno del figlio di quattro anni viene trasformato in pollo da un prestigiatore, lasciando alla moglie il ruolo di capofamiglia.
Nella stessa sezione altri due film africani di giovani registi. The Gravedigger’s Wife di Khadar Ayderus Ahmed film d’esordio di Khadar Ayderus Ahmed, regista finlandese nato a Mogadiscio. Girato a Gibuti è la commovente storia di un uomo che cerca insieme al figlio di salvare la moglie malata. Partendo dai suoi ricordi e mescolando realtà e favola, il regista riflette sull’intreccio della vita e della morte e usa il cinema per mostrare la bellezza, la gioia e la tenerezza e contrastare gli stereotipi dell’Occidente che tende a rappresentare la realtà dei paesi africani con toni pesanti e deprimenti.
Leyla Bouzid con Une histoire d’amour et de désir, sceglie un punto di vista inusuale per la storia d’amore tra due studenti universitari di Parigi. Concentrandosi sulla fragilità del ragazzo, francese di origine tunisina, la regista offre un inedito sguardo femminile sulla sessualità e il desiderio maschile.
La Quinzaine des réalisateurs, sezione che solitamente premia la sperimentazione, ha ospitato l’afro cyber musical Neptune Frost, interamente girato in Rwanda e co-diretto dall’ attore e cantante Saul Williams e da Anisia Uzeyman. Ambientato in villaggio ultraterreno assemblato con parti di computer riciclate e abitato da un collettivo di hacker anticapitalisti è la storia d’amore tra una fuggitiva intersessuale e un minatore di coltan che insieme danno vita ad una meravigliosa entità virtuale.
Infine, nella nuova sezione Cinéma et climat, l’attrice Aïssa Maïga ha presentato Marcher sur l’eau documentario ecologista girato in Niger.
Niente premi dunque, ma una discreta presenza nelle varie sezioni del festival che fa ben presagire su nuovi autori e registi affermati.
Presente sulla croisette, il Pavillon Africain, promosso da l’Agenzia culturale africana e sostenuto dall’Unione africana, che ha accolto registi, produttori, masterclass e tavole rotonde.