Si fa fatica a leggere tra le righe, a guardare oltre le dichiarazioni entusiaste che arrivano da Bruxelles, dopo che ieri, 20 dicembre, la Commissione, il Consiglio e il Parlamento dell’Unione europea hanno raggiunto un accordo dopo mesi e mesi di negoziati. Da Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, che grida al “giorno storico”, fino al ministro degli interni Matteo Piantedosi, che si congratula per il buon compresso trovato tra “solidarietà e responsabilità”. Entusiasmi e proclami che però non convincono chi si occupa da anni di immigrazione e che sembrano coprire cosa sia, veramente, questo nuovo accordo.
I dettagli non sono ancora stati resi noti, ma si conoscono le linee generali. E sono sufficienti a sollevare grandi dubbi. In primis, il superamento del famigerato regolamento di Dublino, che non è stato però affatto superato, ma solo rivisto. Si è parlato di una redistribuzione più equa che coinvolgerà tutti gli stati membri, ma basterà in realtà pagare 20mila euro (a persona) per non accogliere nessuno.
Una decisione che ha fatto infuriare Orban, presidente dell’Ungheria, ma che rende comunque molto debole, rispetto a quanto dichiarato, il nuovo sistema di “solidarietà obbligatoria” ai paesi europei di primo approdo. I soldi da pagare in caso di mancata ridistribuzione, per altro, non sono affatto destinati, come al solito, al sistema d’accoglienza, ma a finanziare nuovi strumenti di controllo e difesa delle frontiere.
Le frontiere: il tasto più dolente di questo nuovo patto UE, come hanno denunciato cinquanta organizzazioni, tra cui Amnesty International, Oxfam, la Caritas, firmatarie di una lettera aperta in cui la riforma viene pesantemente attaccata.
Stando a quanto dichiarato infatti, l’esternalizzazione delle frontiere diventerà prassi ancora più istituzionalizzata, con la creazione di nuovi centri in paesi terzi sicuri, al di fuori dell’UE, dove le persone migranti saranno “ospitate”, si legge, cioè di fatto detenute, per attuare un primo screening che consenta di riconoscere chi non soddisfa i requisiti necessari ad entrare in Europa. Ovvero, chi ha meno possibilità di ottenere la protezione internazionale. In questi luoghi le persone trattenute verranno identificate, attraverso la raccolta di dati biometrici, e rimarranno, in teoria, per un massimo di sette giorni.
Per chi proviene da paesi considerati sicuri e per accelerare in generale la prassi di espulsione, si verrà rimpatriati anziché nel paese d’origine, qualora manchino gli accordi, nei paesi terzi si era transitati, tra cui Tunisia, Libia, Egitto, Bosnia-Erzegovina e Albania.
Un progetto che in realtà non suona affatto nuovo. Ne parlavamo già un anno fa, quando l’Unione Europea ha siglato con la Bosnia un accordo per trasformare il campo profughi di Lipa in un centro per i rimpatri. Attualmente non si hanno notizie precise sul destino che attenderà poi queste persone.
Negli ultimi anni, l’esternalizzazione delle frontiere non ha portato a una riduzione dei flussi migratori, ma solo a quantità incalcolabile di violenze, abusi e violazioni sistematiche dei diritti umani. I respingimenti alle porte dell’Europa sono avvenuti nel sangue. Ed è difficile credere che sarà sufficiente la creazione di un apparato di monitoraggio indipendente in ogni stato membro, per garantire i diritti fondamentali dei richiedenti asilo.
Tra gli obiettivi, poi, c’è quello di sveltire le procedure di valutazione della domanda d’asilo, con un tempo stabilito di massimo sei mesi. Un lasso di tempo molto distante da quella che è, per esempio, la realtà italiana delle commissioni territoriali.
Per citare l’eurodeputato francese Damien Carême, dei Verdi, questo patto servirà sostanzialmente a finanziare la creazione di muri e filo spinato in tutta Europa.