Africa: in cinque anni protagonista delle terre rare? - Nigrizia
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Lo suggerisce un report di un'agenzia specializzata. La crescita sarà a trazione Tanzania
Africa: in cinque anni protagonista delle terre rare?
La possibilità è quella di ricavare spazi allo strapotere della Cina e giocarsela a livello strategico
11 Luglio 2024
Articolo di Redazione
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Una miniera in Rd Congo. Foto dal profilo Flickr di Julien Harneis

Cinque anni per diventare un attore chiave nel mercato mondiale di terre rare, quei 17 elementi della tavola periodica che sono già imprescindibili per la transizione energetica e qundi per il futuro di tutta l’economia globale. È il destino che attende l’Africa secondo un nuovo report di Benchmark Mineral Intelligence, un’agenzia certificata che segnala i prezzi e fornisce informazioni sulla catena di approvvigionamento dei materiali utili per le batterie dei veicoli elettrici. Appunto uno degli utilizzi delle terre rare, ma non l’unico. Nelle batterie di un comune smartphone, per fare un esempio, si trovano in media circa otto elementi che appartengono a questo gruppo di elementi. Le terre rare vengono usate anche negli impianti di produzione di eolico e fotovoltaico e nell’industria bellica.

A oggi la produzione di questi elementi in Africa è pari a zero. Depositi dei preziosi materiali sono sparsi in vari paesi del continente e soprattutto nella sua parte meridionale, dalla Namibia allo Zambia. Fino a tre anni fa in tutto il continente c’era una sola miniera in funzione, quella di Gakara, in Burundi, ritenuta fra le più ricche al mondo e operata al 90% dalla compagnia britannica Rainbow Rare Earths, che sta sviluppando un sito anche in Sudafrica. L’attività estrattive sono ferme  dal 2021 però, a fronte delle dimostranze del governo di Bujumbura, che lamentava la mancanza di equilibrio dei contratti siglati con la società straniera – e anche con altre in altri settori – e le conseguenti, magre prospettive di guadagno.

Otto miniere in quattro paesi 

Adesso invece, secondo la ricerca di Benchmark Mineral Intelligence, otto miniere in quattro paesi – Angola, Sudafrica, Malawi e Tanzania – promettono di portare al 9% la quota africana del volume di produzione globale entro il 2029, anno in cui dovrebbero entrare in funzione tutti i siti minerari in questione. A guidare questa crescita sarà la Tanzania. Il paese dell’Africa orientale, vero e proprio crocevia di numerosi progetti di sviluppo energetico, dal petrolio al gas naturale, dovrebbe da solo riuscire a esportare il 10% del totale delle importazioni di terre rare della Cina.

E qui entra in gioco una pedina fondamentale. Pechino è l’attore più rilevante di tutto il comparto, con margini impressionanti. In Cina si concentra a oggi più del 70% di tutta la produzione e la quasi totalità del processo di raffinazione della materia prima, o almeno l’80%, secondo alcune fonti. Nonostante la grande disponibilità di terre rare, Pechino deve anche importare questa materia prima viste le dimensioni della sua industria di trasformazione. A oggi i vicini Myanmar e Thailandia forniscono più dell’85% di quanto serve alla Cina, ma da qui a cinque anni le cose potrebbero cambiare e la Tanzania potrebbe assumere un peso specifico considerevole.

Risiko energetico 

Ci potrebbero essere serie ricadute sul piano geopolitico. Vista l’importanza strategica dei materiali di cui si scrive, Pechino può anche utilizzarli come leva di pressione o volano geopolitico. Lo avrebbe già fatto nel 2010 a esempio, bloccando l’export delle terre rare verso il Giappone per ragioni politiche. Una versione questa, in realtà messa in dubbio da alcuni analisti e smentita dalla stessa Cina. Sempre nel 2010 però, questioni relative ai limiti imposti dalla Cina all’export di terre rare sono stati discusse in sede di Organizzazione mondiale del commercio (OMC/WTO). Quel che è certo è che lo scorso dicembre Pechino ha bloccato l’esportazione di alcune tecnologie necessarie all’estrazione e alla separazione delle terre rare, tornando così a sollevare timori sul suo utilizzo strumentale di questa risorsa.

È qui, in definitiva, che l’Africa potrebbe provare a ritagliarsi un posto diverso. Sebbene, sostiene la ricerca di Benchmark, il 40% della futura produzione africana sia già destinata a compratori cinesi, il discorso è diverso per il restante 60%. In aggiunta, nessuna delle società che possiedono le miniere citate nel report sono cinesi.

Detto tutto questo però, resta da capire come faranno i paesi africani a fare delle terre rare uno strumento di sviluppo e non l’ennesima maledizione, così come già avvenuto per altre risorse chiave come il petrolio, il gas naturale o il coltan. Allo stesso modo, non è chiaro come le tensioni internazionali e la volatilità di un mercato a decisa dipendenza cinese potranno tradursi in una serie di condizioni vantaggiose per l’Africa, e non invece, come sta avvenendo nella maggior parte dei casi in questa fase storica, nel propellente di un’affannosa corsa alle risorse che rischia di farne un campo di battaglia, più che un bacino di prosperità.

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