L’Africa insegue il nucleare - Nigrizia
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I primi impianti attivi nel 2030, ma i rischi superano i vantaggi
L’Africa insegue il nucleare
Sempre più paesi del continente puntano sulla costruzione di centrali atomiche per far fronte al costante aumento della richiesta energetica. Un affare da centinaia di miliardi di dollari che vede in prima linea Cina e Russia. Che dovranno però vedersela con un nuovo competitor: la Corea del Sud
26 Agosto 2022
Articolo di Michela Trevisan
Tempo di lettura 7 minuti
La centrale di Koeberg, in Sudafrica, la prima e finora l'unica del continente, completata nel 1984

Lievita la richiesta mondiale (e i costi) di energia, e sempre più paesi guardano alle centrali atomiche come alla soluzione per ridurre la dipendenza dall’estero e uscire dalla crisi.

Nonostante l’enorme potenziale non sfruttato del continente per la generazione di energia da fonti idroelettriche, termoelettriche, solari ed eoliche – per non parlare di gas e petrolio -, anche in Africa un numero sempre maggiore di paesi (25 al momento) ha scelto di puntare sul nucleare.

Questo perché si calcola che la domanda di energia nell’Africa subsahariana sia destinata a crescere del 60% nei prossimi due decenni, anche se si prevede che le fonti nucleari soddisferanno solo una piccola parte di questa richiesta. E poi il continente può contare su importanti giacimenti di uranio – il 20% delle riserve mondiali, concentrate in prevalenza in Niger, Namibia e Sudafrica – anche se destinati in prevalenza all’esportazione.

Attualmente, il nucleare civile rappresenta meno del 2% della produzione energetica africana. Un dato di gran lunga inferiore a quello della ben più piccola Europa, dove già nel 2019 il 25% dell’elettricità proveniva dal nucleare (il 46% da combustibili fossili e biomasse, e il 29% da fonti rinnovabili).

Per colmare, almeno in parte, questo gap, e arrivare a raddoppiare la quota continentale di energia prodotta dal nucleare entro il 2040, una decina di paesi sono già avviati verso la costruzione di centrali atomiche, sulla scia del Sudafrica che da ormai quasi 40 anni ha in funzione due reattori.

I più avanzati sono Egitto e Uganda che stanno per iniziare le opere di costruzione delle loro prime strutture. Li seguono a ruota altri sette paesi (Kenya, Nigeria, Algeria, Ghana, Marocco, Sudan e Tunisia) che saranno operativi per il 2030, mentre altri 16 (tra cui il Rwanda) dovrebbero essere pronti entro il 2050.

Competizione tecnologica

Il potenziamento del nucleare civile è un affare da centinaia di miliardi di dollari che vede in prima linea due giganti della tecnologia impiegata per la produzione di energia atomica: Russia e Cina. Che nella competizione nel continente devono vedersela ora anche con un terzo, agguerrito soggetto: la Corea del Sud, il cui nuovo governo ha indicato tra le priorità la commercializzazione della sua tecnologia nucleare. Una tecnologia altamente avanzata.

A favorire lo sviluppo del nucleare civile in Africa sono soprattutto i progressi tecnologici compiuti negli ultimi decenni dalle società russe (Rosatom) e cinesi (China National Nuclear Corporation e China General Nuclear Power Group). Che oggi possono contare, tra l’altro, su piccoli reattori modulari, micro-reattori sigillati e reattori a gas ad alta temperatura, più economici e che necessitano di minor manutenzione, pur producendo la stessa potenza dei reattori più grandi.

Ѐ il caso della centrale in costruzione a Qesm El Dabaa, a 300 km a nord del Cairo, sulla costa mediterranea dell’Egitto, che sarà la seconda del continente. I lavori sono stati affidati alla russa Rosatom, che ha offerto un pacchetto chiavi in mano: si occuperà di realizzare i reattori, del combustibile, del funzionamento dell’impianto e della gestione delle scorie.

L’appalto, da 2,5 miliardi di dollari, per la costruzione dell’impianto, è stato invece vinto dalla Korea Hydro & Nuclear Power Co., sussidiaria dell’azienda a controllo statale Korea Electric Power Corp. (Kepco). Per la Corea del Sud è la prima commessa in Africa e il primo ordine internazionale dopo 13 anni di stallo.

Norme e controlli

A giocare contro lo sviluppo di queste tecnologie in Africa sono però principalmente tre fattori tra loro correlati. Ovvero gli alti costi e i lunghi tempi di realizzo, e i rischi legati all’instabilità politica di molti paesi. Un mix che induce ancora gli investitori a una certa diffidenza.

Proprio perché sempre più tecnologici, questi impianti richiedono inoltre manutenzione continua e un’elevata competenza tecnica per garantire che funzionino senza incidenti, il che significa investimenti costanti, e a lungo termine, nella formazione di personale locale specializzato.

Inoltre, prima che le centrali nucleari possano essere installate, ogni paese deve dotarsi di un quadro legislativo e normativo adeguato, in grado di garantire meccanismi di conformità rigorosi per gli operatori, a tutela delle persone e dell’ambiente.

Finora, però, a parte il pioniere Sudafrica, dove l’unica centrale atomica del continente è in funzione già dal 1984, solo il Kenya si è mosso in questa direzione, emanando nel 2019 una legge sull’energia nucleare e le sostanze radioattive, che ha istituito, tra l’altro, l’Autorità di regolamentazione nucleare.

Che fine fanno le scorie radioattive?

Uno degli aspetti più controversi, anche in Nord America e in Europa (il parlamento europeo ha classificato il nucleare, assieme alle fonti fossili, come “investimenti green”), è lo stoccaggio delle scorie radioattive. Lo smaltimento dei rifiuti radioattivi prevede infatti la loro collocazione definitiva in depositi superficiali o interrati – a seconda del tipo di scorie -, in grado di garantire il completo isolamento dall’ambiente per periodi molto lunghi di tempo.

Nel caso di rifiuti radioattivi di bassa o media attività, l’isolamento deve essere garantito per qualche centinaio di anni, mentre i rifiuti radioattivi ad alta attività mantengono livelli di radioattività significativi anche per centinaia di migliaia di anni.

In questo caso non è incoraggiante l’esempio del Sudafrica, che dopo 38 anni di attività del suo impianto, ancora non dispone di un piano a lungo termine per la gestione delle scorie nucleari.

Ma la fusione nucleare implica anche l’uso di ingenti quantità di acqua – motivo per cui gli impianti vengono costruiti sempre nelle vicinanze di laghi, mari o grandi fiumi – che viene utilizzata per raffreddare i nuclei radioattivi che generano calore.

Durante questo processo l’acqua viene contaminata da radionuclidi e deve essere in seguito filtrata per rimuovere il maggior numero possibile di elementi radioattivi. Una volta dichiarata sicura, viene rimessa nei bacini da cui è stata prelevata. Un procedimento delicato e costoso che richiede alcuni anni per essere completato. Per cui normalmente si ricorre al graduale rilascio delle acque contaminate a piccole dosi. E sono pochi, ad oggi, gli studi scientifici sugli impatti delle radiazioni ionizzanti sulla vita marina.

L’esempio sudafricano

In Africa, dicevamo, si guarda alla centrale sudafricana di Koeberg – situata a una trentina di chilometri da Città del Capo e realizzata tra il 1978 e il 1984 dalla società francese Framatome – che però sta raggiungendo la fine del suo ciclo di vita programmato, fissato dalle norme internazionali a 40 anni. La scadenza sarà a luglio 2024.

Una proroga per altri 20 anni della sua attività è subordinata a una serie di interventi strutturali e di aggiornamenti del sistema, iniziati nel gennaio scorso e già in grave ritardo. Cosa che sta causando una riduzione della produzione energetica della centrale, passata dal 5 al 3%.

Senza parlare del costo previsto, che si aggira attorno ai 20 miliardi di rand, pari a circa 1,2 miliardi di dollari. Il Sudafrica, d’altronde, ha fatto sapere di non avere soldi per costruirne una nuova. E forse nemmeno per portare a termine l’adeguamento di quella vecchia, la cui gestione è affidata alla società energetica statale Eskom, da tempo in gravi difficoltà economiche, finita nell’occhio del ciclone nei mesi scorsi anche per i perduranti e prolungati periodi di interruzione di elettricità nel paese.

Ma a stimolare l’Africa e il resto del mondo a una seria riflessione sui rischi imprevedibili dell’utilizzo di energia atomica dovrebbe essere soprattutto quanto sta avvenendo oggi in Ucraìna, con la centrale di Zaporizhzhia contesa tra i due eserciti contrapposti e con la minaccia nucleare usata come arma globale di guerra.

Un’eventualità, questa, già prevista dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) che nel suo sito avverte che “esiste il rischio che il nucleare o altro materiale radioattivo possa essere utilizzato in atti criminali o intenzionalmente non autorizzati, creando una minaccia per la sicurezza internazionale”.

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