Da una parte la necessità di riciclare nell’ottica dell’economia circolare e della difesa dell’ambiente; dall’altra la presa di coscienza di quei paesi e continenti che sanno da tempo di essere utilizzati come una sorta di discarica da quell’altra parte di mondo che continua a produrre in modo incessante.
Dove vanno a finire i nostri abiti e scarpe usati, ma anche asciugamani, tende, lenzuola e gli scarti tessili non più utili alla lavorazione? Per il 90% tornano in Africa e Asia, magari in quegli stessi territori che hanno fornito la manodopera a basso costo per realizzarli.
È un dato che sottolinea l’Inter Press Service ma non è una novità. Negli anni, infatti, di pari passo con la crescita della produzione è aumentato lo stock – milioni e milioni di balle di indumenti – inviati altrove magari sotto forma di donazione ma in realtà semplicemente per liberarsi del problema del riciclo di tale materiale. Provocando, di fatto, un grave danno all’ambiente. Senza contare l’impatto sull’autostima dei cittadini africani destinatari di prodotti di seconda o terza mano.
Un approfondito lavoro dell’European Environment Agency (EEA) evidenzia i danni provocati non solo dai tessuti ma dalle fibre sintetiche e dalla plastica in essi contenute. Basti riflettere sul fatto che il consumo globale di fibre sintetiche – in sostituzione del cotone – è passato da poche migliaia di tonnellate nel 1940 a oltre 60 milioni di tonnellate nel 2018, e continua a crescere.
Fibre che contengono quelle microplastiche che ogni anno entrano nell’ambiente marino nella misura di 200mila/500mila tonnellate. Ma la negativa incidenza sull’ambiente si manifesta già alla fonte. Dopotutto, è stato riconosciuto che “i tessili sono la quarta categoria di pressione più alta per l’uso di materie prime e la quinta per le emissioni di gas a effetto serra”.
Per restare ai dati della EEA – che nel frattempo non crediamo siano cambiati in meglio – ricordiamo che, nel 2017 le famiglie europee hanno consumato circa 13 milioni di tonnellate di prodotti tessili (abbigliamento, calzature e tessili per la casa). Le fibre sintetiche, come poliestere e nylon, costituiscono circa il 60% dell’abbigliamento e il 70% dei tessili per la casa.
A differenza del cotone, la produzione di fibre sintetiche non utilizza risorse agricole, pesticidi tossici o fertilizzanti. Ma nel contempo, come dicevamo, sono un killer per l’ambiente una volta dismesse. Come ha denunciato di recente anche un rapporto della Fondazione Changing Markets, incentrato sul Kenya.
Europa, primo hub di esportazione
I consumatori dell’UE scartano ogni anno circa 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili – circa 11 kg a persona – di cui circa due terzi sono costituiti da fibre sintetiche. E solo un terzo di questi rifiuti viene raccolto separatamente. Gran parte viene, appunto, esportato.
Ottimisticamente l’Agenzia europea dell’ambiente afferma che “la promozione di scelte di fibre sostenibili e il controllo delle emissioni di microplastica e il miglioramento della raccolta differenziata, del riutilizzo e del riciclaggio hanno il potenziale per migliorare la sostenibilità e la circolarità dei tessuti sintetici in un’economia circolare”.
L’economia circolare (soprattutto nei termini del riciclo) in Africa la conoscono bene. Anzi ne conoscono una parte. Quella associata all’arrivo di enormi balle di abiti usati, la loro immissione nei mercati locali, la vendita ai locali. Il ciclo comprende anche il disfacimento del prodotto e il doversene disfare.
Negli ultimi due decenni, l’Africa è stata il principale continente a ricevere tessuti usati dall’Unione Europea, oltre il 60%. E, secondo la EEA, alcuni paesi come Germania, Polonia e Paesi Bassi, a cui va aggiunto il Regno Unito rappresentano circa il 75% di tutte le esportazioni di tessili usati dall’Europa agendo come veri e propri hub di esportazione. A questi aggiungono Belgio, Italia e Paesi Bassi con i loro porti.
È evidente che si tratta di un grande commercio, che niente ha a che fare con la retorica dell’aiuto, delle donazioni e dell’economia circolare. In Africa lo sanno e anzi sono migliaia e migliaia le famiglie la cui principale fonte di reddito risiede nell’acquisto e rivendita dell’usato.
Colonialismo dei rifiuti
Negli anni si sono sviluppate anche forme di protesta e “resistenza” a quello che è giudicata una ulteriore violenza e sfruttamento da parte dell’Occidente. #StopWasteColonialism è una di queste. Dove per waste colonialism di fa riferimento al fatto che “un gruppo di persone usa i rifiuti e l’inquinamento per dominarne altre sul loro stesso territorio”.
Termine che – si ricorda – venne registrato per la prima volta nel 1989 alla Convenzione di Basilea del Programma ambientale delle Nazioni Unite. All’epoca le nazioni africane cominciavano ad esprimere preoccupazione per lo scarico di rifiuti pericolosi da parte di paesi ad alto Pil in paesi in via di sviluppo.
Kantamanto Market ad Accra, capitale del Ghana, è diventato un po’ il simbolo, negli anni, di questo meccanismo di “gestione dei rifiuti” da parte dell’Occidente, travestito da buone intenzioni. In questo che è considerato il più grande mercato al mondo dell’usato, ogni giorno arrivano cumuli di roba e a comprare non sono solo gli africani, ma molto spesso anche gli espatriati.
Il gesto di Yvette Tetteh, anglo-ghanese, attivista, atleta e imprenditrice che, in diverse tappe, ha percorso 450 chilometri a nuoto nel fiume Volta, ha voluto proprio mettere in risalto questa situazione. Un’impresa storica realizzata, ha riportato la stampa locale “per aumentare la consapevolezza sull’impatto del colonialismo dei rifiuti sugli ecosistemi”.
Un evento sostenuto dalla OR Foundation, charity che opera in Ghana e negli Usa, la cui missione è “identificare e manifestare alternative al modello dominante della moda – alternative che portino prosperità ecologica, in opposizione alla distruzione, e che ispirino i cittadini a formare un rapporto con la moda che vada oltre il loro ruolo di consumatore”.
La questione rimane quella delle alternative, appunto. In Africa si veste all’europea da decenni ormai – nonostante, per fortuna, l’utilizzo di abiti e stoffe tradizionali in ogni contesto – eppure non ci sono fabbriche produttrici e l’unica alternativa sono i mercati dell’usato. Come conciliare la globalizzazione della moda con il rispetto dell’ambiente e delle popolazioni è la sfida reale.
Senza questo approccio continueremo all’infinito a riproporre dati che aumentano di anno in anno e la solita narrativa di sfruttati e sfruttatori.