Dopo il suo insediamento, l’amministrazione Biden si è impegnata a voltare pagina in politica estera, in controtendenza con i quattro anni di Donald Trump, tutti incentrati nel protezionismo e nell’isolazionismo dell’“America first”, nel respingimento delle istituzioni multilaterali e nelle critiche all’Alleanza atlantica.
Nel nuovo approccio di relazioni internazionali, uno dei test più problematici per Washington è rappresentato dal trovare una soluzione alla turbolenta regione del Corno d’Africa. Un’area segnata dal conflitto che da 14 mesi in Etiopia contrappone le forze leali al premier Abiy Ahmed e i ribelli del Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Senza dimenticare, le enormi difficoltà che il Sudan sta affrontando nel processo di transizione democratica e la Somalia, martoriata da crescenti tensioni politiche e da una guerra senza fine contro il terrorismo.
La mancanza di una adeguata risposta statunitense a queste crisi ha prodotto dannosi costi umanitari e di sicurezza, oltre a sollevare interrogativi sulla capacità di Washington nel destreggiarsi nella complessa e sempre più instabile situazione geopolitica della regione.
Lo scorso 23 aprile, la nomina di un inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa era stata annunciata come una panacea per risolvere le crisi in assenza di una strategia solida e coesa. Ma le dimissioni del diplomatico di lungo corso Jeffrey Feltman, annunciate lo scorso 5 gennaio, hanno mostrato che questa figura da sola non è sufficiente per trovare una soluzione alle tante crisi securitarie, umanitarie e politico-istituzionali nell’area.
E anche per il nuovo inviato speciale, l’ambasciatore uscente in Turchia, David Satterfield, il percorso è tutto in salita. Una salita iniziata in questi giorni proprio con la sua prima visita in Arabia Saudita, Sudan ed Etiopia.
Nella sua lunga e articolata analisi, pubblicata la scorsa settimana sul sito del Consiglio atlantico, l’ex direttore generale dell’Africa orientale per la Banca africana di sviluppo, Gabriel Negatu, sostiene che l’evoluzione della crisi in Etiopia e Sudan ha messo in luce la mancanza di una politica chiara e coerente per la regione da parte di Washington.
Secondo Negatu, gli sviluppi in entrambe le nazioni provano che gli Stati Uniti non erano preparati a fornire una risposta adeguata per affrontare dossier tanto complessi e che devono ripensare il loro approccio alla cooperazione regionale e all’uso delle sanzioni.
C’è inoltre da rilevare che dopo la guerra fredda, l’impegno statunitense nella regione non ha saputo cogliere la portata degli stravolgimenti che stavano interessando il Corno. Poi, le tragiche ricadute dell’intervento dell’amministrazione Clinton in Somalia, culminate con le immagini dei cadaveri mutilati dei soldati americani trascinati per le strade di Mogadiscio, hanno frenato la volontà di impegnarsi più attivamente nella regione.
L’attenzione americana si è risvegliata solo dopo una serie di attacchi terroristici, inclusi gli attentati alle ambasciate statunitensi del 1998 in Kenya e Tanzania, e alcuni episodi di pirateria marittima. Il nuovo obiettivo è stato quello di eliminare gli estremisti islamici locali collegati ad al-Qaida e nel vano tentativo di raggiungerlo gli Stati Uniti hanno impiegato ingenti risorse.
La lotta al terrorismo ha però avuto la precedenza su quelle che gli africani consideravano priorità più urgenti, come combattere la siccità e la desertificazione, alleviare la povertà e promuovere il buon governo.
In assenza di un quadro generale in grado di comprendere e affrontare le complesse priorità regionali, gli Stati Uniti hanno perseguito agende specifiche e hanno risposto alle sfide quando e dove si sono presentate, preferendo concentrarsi sui singoli paesi piuttosto che adottare una strategia regionale globale. Un’agenda così ridotta da risultare carente in termini di profondità e di visione a lungo termine, che ha messo in secondo ordine la diplomazia regionale.
Senza una chiara direzione, Washington ha così intaccato la sua credibilità, favorendo chi la accusava di favorire i despoti africani, in cambio della loro cooperazione nella guerra al terrorismo. Ad esempio, ha sostenuto il regime di Meles Zenawi in Etiopia, pienamente consapevole delle sue ripetute violazioni in materia di diritti umani.
Poi, l’avvento al potere del nuovo leader Abiy Ahmed ha colto Washington impreparata e con poca incisività nell’influenzare la svolta degli eventi. Tanto che Abiy non ha perso tempo nel cercare un ampio sostegno internazionale e nel difendere l’interesse del paese, prendendo le distanze dalla Casa Bianca.
Non è dunque un caso che, mentre infuriavano i combattimenti, sia il governo di Addis Abeba che i ribelli del Tplf abbiano sistematicamente ignorato gli appelli del Pentagono per un cessate il fuoco e per l’avvio di negoziati. E, data la sempre più limitata influenza degli Stati Uniti, nemmeno il colloquio telefonico che lo scorso 10 gennaio Joe Biden ha avuto con Abiy Ahmed, potrà produrre un impatto significativo sull’esito del conflitto nel Tigray e sugli eventi nella regione.