Africa orientale: la battaglia del mitumba - Nigrizia
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L’importazione dei vestiti di seconda mano al centro di controversie economiche
Africa orientale: la battaglia del mitumba
L’Uganda e il Rwanda hanno vietato l’importazione degli abiti usati, ritenendo che sia un freno per la già debole industria tessile locale e favorisca la Cina. Più prudente la posizione del Kenya. I vestiti arrivano perlopiù da Cina, Stati Uniti ed Unione europea
11 Settembre 2023
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti
(InsideOver)
Commercio di abiti di seconda mano (mitumba) a Nairobi, Kenya

Quello dei vestiti di seconda mano importati è un business che a prima vista potrebbe apparire di limitata consistenza, eppure intorno a esso si sono condotte politiche controverse anche a livello di governi. Ne dà conto il giornale on line The EastAfrican. Ne riprendiamo i tratti salienti.

I paesi della Comunità dell’Africa orientale (Eac), infatti, da tempo coltivano l’idea di vietare l’importazione di vestiti di seconda mano dall’estero, e hanno anche legiferato in proposito, al fine di promuovere o proteggere le nascenti industrie tessili in Africa.

C’è chi è convinto che un provvedimento del genere andrebbe a favorire paesi come la Cina, che ha aumentato le sue esportazioni tessili nell’area offrendo prezzi economici. E potrebbe essere questa la radice della proibizione di importazione e compravendita di vestiti di seconda mano, noti in Africa orientale come mitumba.

Tra i paesi dell’Eac, l’Uganda ha affiancato il Rwanda nel proibire le importazioni di abiti usati. Perché soffocano l’industria tessile locale: questa la giustificazione addotta dal presidente Museveni, che ha promosso lo slogan “Compra Uganda, costruisci Uganda”.

E nello stesso tempo, Museveni ha inaugurato di recente sedici fabbriche nella città di Mbale, in cooperazione con la Cina. Secondo il presidente il 1° settembre doveva essere il giorno fissato per abolire ufficialmente il sistema mitumba. L’annuncio della data ha però suscitato forti tensioni.

Fronti opposti

Da un lato i produttori locali si lamentano perché l’abbigliamento di seconda mano sta inondando il mercato, dall’altro i commercianti e i rivenditori di abiti di seconda mano accusano i produttori locali di produrre indumenti scadenti. «Pensiamo che il governo non abbia valutato a sufficienza i molti aspetti di questa attività – ha dichiarato in un’intervista Thadeus Musoke, segretario generale dell’associazione commercianti –. Prima di tutto deve chiedersi perché gli ugandesi acquistino vestiti importati di seconda mano. Le motivazioni principali sono due: sono più convenienti e più resistenti».

I commercianti aderenti all’Associazione dei commercianti della città di Kampala (Kacita) hanno deciso di chiedere al governo di revocare il divieto o quantomeno di ridurre con gradualità l’importazione di vestiti usati.

Lo scorso anno Unione europea, Stati Uniti e Cina sono stati i maggiori esportatori di indumenti di seconda mano. Riguardo alla Cina Musoke ha detto: «I cinesi fanno i loro affari. Vogliono essere i fornitori di materie prime, i responsabili di trasporti e logistica, i produttori, i grossisti e i rivenditori dei vestiti. Non c’è modo di competere con loro».

Anche l’Associazione del Consorzio Mitumba del Kenya si è pronunciata al riguardo in un rapporto pubblicato lo scorso luglio. Dove si dice: «Il protezionismo più spesso soffoca la crescita della produttività e l’innovazione settoriale. Sosteniamo che l’indebolimento del settore dell’abbigliamento usato nell’Eac va semplicemente a vantaggio del commercio di indumenti a basso costo della Cina».

Gradualità

In effetti, secondo i dati raccolti negli ultimi cinque anni, la Cina è diventata un attore di primo piano nell’industria tessile regionale, inviando vestiti a paesi come Kenya, Angola e Ghana.

Alla proposta di aumentare del 25% le tasse sugli indumenti usati, presentata in Kenya da Moses Kuria, segretario del gabinetto del commercio, ha reagito Teresia Njenga, presidente della Mitumba Consortium Association of Kenya, sostenendo che il sistema del mitumba rappresenta una delle principali fonti di beni e un motore di business per le micro, piccole e medie imprese (Mpmi).

Si stima che il Kenya abbia oltre 7,4 milioni di Mpmi, che impiegano circa 14,9 milioni di kenyani e costituiscono il 98% di tutte le imprese del Kenya. Secondo alcune stime, oggi nell’Eac meno del 5% dei tessuti viene prodotto localmente. Secondo uno studio del 2017 di Usaid, i paesi dell’Eac rappresentano quasi il 13% delle importazioni globali di indumenti usati per un valore di circa 274 milioni di dollari.

Suzan Muhwezi, consigliere presidenziale dell’Uganda riguardo al programma statunitense dell’Agoa (African Growth and Opportunity Act) ha fatto presente, in un incontro con i funzionari del ministero del commercio, che sono sul tavolo vari suggerimenti per una riduzione graduale dell’industria degli indumenti di seconda mano, a partire da vestiti facili da realizzare come indumenti intimi, lenzuola e calze man mano che la capacità produttiva viene ampliata. «È positivo sostenere l’industria tessile locale – ha osservato Muhwezi –, ma dovremmo anche considerare se i nostri produttori locali, in caso di divieto totale, siano in grado di soddisfare la domanda di oltre 40 milioni di persone».

 

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