Gli africani si chiedono con preoccupazione che impatto avrà sulla loro vita, già piuttosto complicata, il nuovo conflitto tra Israele e Hamas che infiamma il Medio Oriente.
Ѐ questa la quarta crisi di notevoli proporzioni che si preparano ad affrontare nell’arco di pochissimi anni.
I cambiamenti climatici, come ovunque, hanno subito un’accelerazione che, nel continente, si è tramutata in cicli sempre più frequenti di siccità inframmezzati da brevi stagioni delle piogge sempre più distanziate e catastrofiche, con conseguenze disastrose sulla sicurezza alimentare, familiare, economica e comunitaria.
La pandemia ha creato vuoti che non si sono ancora completamente colmati nel già fragile sistema economico e nel precario mercato del lavoro.
La guerra russa in Ucraìna e l’inflazione hanno causato un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che pesano non solo sulla vita quotidiana ma anche sui bilanci statali e sulla tenuta complessiva degli equilibri politici e sociali.
Ora il continente si prepara ad affrontare una nuova crisi le cui conseguenze si aggiungono a quelle delle precedenti.
The East African, settimanale diffuso nei paesi dell’Africa orientale, il 16 ottobre scorso pubblicava un articolo dal titolo chiaro: African economies face heavy toll of the Israel-Hamas conflict in Gaza (Le economie africane fanno i conti con il pesante bilancio della guerra Israele-Hamas a Gaza).
I conti, secondo l’autore, vanno considerati come la somma del più che probabile impatto in diversi settori: aumentati rischi per la sicurezza, maggiori costi per le importazioni e pressioni geopolitiche per il loro schieramento.
Questione palestinese
Partiamo dall’ultimo punto, che è quello sicuramente più generale e insidioso e che potrebbe avere significativi impatti, non solo a livello diplomatico, ma anche economico. Certe prese di posizione, si sa, facilitano o rendono più difficili investimenti e linee di credito sia nel settore pubblico che in quello privato.
Il 7 ottobre, lo stesso giorno dell’incursione dei miliziani di Hamas in Israele, il presidente della commissione dell’Unione Africana (UA), il ciadiano Moussa Faki Mahamat, si affrettava a diramare un comunicato stampa di poche righe in cui, in modo molto diretto, si diceva preoccupato per la pace nella regione e dichiarava che la causa della persistente tensione è la negazione dei diritti fondamentali al popolo palestinese, in particolare quello ad avere uno Stato sovrano ed indipendente.
Chiedeva poi la cessazione delle ostilità e la ripresa dei negoziati per realizzare il principio, già sancito, dei due Stati. Infine richiamava il dovere della comunità internazionale, e delle potenze mondiali in particolare, a imporre la pace e a garantire i diritti dei due popoli.
Neanche una parola sull’azione di Hamas.
Una lettura, come si vede, piuttosto differente da quella corrente sui mass media occidentali, ma sicuramente in linea con quella dei paesi arabi, con cui molti paesi del continente – in particolare quelli dell’Africa settentrionale, saheliana e orientale – hanno interazioni diplomatiche ed economiche importanti e di cui subiscono un’influenza culturale e sociale palpabili.
La dichiarazione sembra essere la chiusura di una porta che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha cercato di tenere ben aperta e di consolidare fin dal momento in cui era arrivato al potere.
Tanto da aver chiesto un posto da osservatore permanente all’Unione Africana stessa.
Per la verità, le relazioni si erano già fatte difficili all’inizio di quest’anno, quando l’UA aveva chiesto ai suoi membri di terminare i legami scientifici e culturali con Israele, a causa delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.
Filo-israeliani in allerta
Tuttavia non tutti i paesi africani si sono allineati alle posizioni espresse dal presidente dell’Unione Africana.
Alcuni, tra cui Kenya, Zambia, Ghana e la Repubblica democratica del Congo, hanno espresso posizioni diverse.
Il presidente kenyano William Ruto, ad esempio, alla notizia dei fatti in corso, scriveva sul suo account di X (ex Twitter): “Il Kenya si unisce al resto del mondo in solidarietà con lo Stato di Israele e condanna in modo inequivocabile il terrorismo e gli attacchi a civili innocenti … Non c’è nessuna giustificazione per il terrorismo che costituisce una seria minaccia alla pace e alla sicurezza globali”.
Continuava poi sottolineando il dovere della comunità internazionale di attivarsi perché i colpevoli fossero assicurati alla giustizia. Nessuna parola per considerazioni riguardanti i diritti dei palestinesi.
Nei giorni seguenti il ministro degli esteri kenyano ha chiarito la dichiarazione sottolineando la particolare sensibilità del paese in fatto di terrorismo, ma rispondendo anche ad una dura presa di posizione dell’influente leadership della significativa minoranza musulmana.
Sta di fatto, però, che il Kenya è uno dei paesi dove l’attivismo israeliano si è maggiormente sviluppato. Netanyahu ha visitato il paese diverse volte e ha incontrato in numerose occasioni i presidenti kenyani in carica; l’ultima lo scorso maggio, a Gerusalemme.
Ma la preoccupazione per un’eventuale intensificazione dell’azione terroristica ha certamente contribuito a modificare, almeno pubblicamente, la posizione.
A ridosso dei fatti di Gaza, al-Shabaab, il gruppo militante somalo che colpisce anche in Kenya, ha fatto circolare una dichiarazione a sostegno di Hamas, anche se, dicono gli esperti di sicurezza, tra i due gruppi non ci sarebbero per ora contatti diretti.
Questo avrebbe aumentato la percezione del pericolo di eventuali attentati, anche eclatanti, contando su una possibile maggior visibilità.
Lo stesso si può dire di Uganda e Tanzania che pure subiscono la minaccia di gruppi jihadisti legati allo Stato islamico.
Sarebbe un disastro per il settore turistico nella regione, uno dei comparti economici trainanti, che sta riprendendo quota dopo lo stop dovuto alla pandemia.
Riverberi continentali
Altri paesi avranno sicuramente un impatto, negativo, dallo scoppio del conflitto Hamas-Israele.
Uno è certamente il Sudan, il cui conflitto, il più preoccupante nell’area fino al 7 ottobre scorso, rischia di perdere buona parte dell’attenzione della comunità internazionale, sia per quanto riguarda gli sforzi diplomatici per la ricerca di una soluzione politica, sia per quanto riguarda l’intervento nel settore umanitario, in cui sarebbe necessario un impegno economico notevole.
Secondo Murithi Mutiga, direttore delle ricerche in Africa per l’International Crisis Group, un autorevole think thank basato a Nairobi, un impatto economico negativo è prevedibile anche per gli altri paesi del continente, e in particolare per quelli che importano energia e beni di prima necessità.
Si può ipotizzare, dice Mutiga, che la crisi in Medio Oriente provochi uno shock economico che andrebbe ad aggiungersi agli altri, sperimentati negli ultimi anni. L’impatto in particolare del costo dell’energia potrebbe rallentare la crescita del Pil nel continente, che era stimata al 5,1% per quest’anno.
Ma, dice Samuel Nyandemo, professore alla facoltà di economia dell’Università di Nairobi, il problema maggiore potrebbero essere i flussi finanziari, che potrebbero dipendere, magari indirettamente, dalla posizione che i paesi africani prenderanno sul conflitto Hamas-Israele.