Spesso si viaggia per cercare una parte di sé. Per capire da dove si viene, a cosa veramente si appartiene. L’incontro, da sempre, è la modalità per definirsi. Lo è anche per Johny Pitts, giovane scrittore e fotografo, figlio di padre afroamericano e madre inglese che, come molti neri cosiddetti di seconda o terza generazione, sente la necessità di raccontare quel bilico del vivere tra due appartenenze. Che vuol dire essere sempre troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri. Troppo inglese per gli africani, troppo africano per gli inglesi.
Una mescolanza, questa delle generazioni miste, che sente, da sempre, la necessità di definirsi e che viene etichettata nei modi più svariati, segno che l’esigenza di catalogare queste identità che stanno nel mezzo appartiene non solo ai neri, ma anche ai bianchi, agli europei.
Pitts ha scoperto il termine “afropeo”, coniato da due cantanti negli anni ’90, David Byrne e la belga-congolese Marie Daulne. È un termine che lo affascina. Intanto perché scritto senza trattini, per cui dà l’idea di un’entità integra e poi perché gli sembra che leghi (forse scimmiottando un po’ il termine/fratello “afroamericano”) «la possibilità di vivere in, e con, due concetti diversi: l’Africa e l’Europa».
Ma per capire se esiste per davvero questa identità, per togliersi il dubbio che non sia solo un termine inventato per fini altri, per una «una visione di un multiculturalismo commerciale», alla Tony Blair, Pitts decide di partire per altri paesi europei. Dopo aver messo da parte i soldi per due anni, una fredda mattina di ottobre lascia Sheffield e quel calderone multiculturale di Firth park, il quartiere in cui abita, per andare alla ricerca degli afropei e vedere se gli somigliano. Per raccontarli.
Raccontare quel continente sommerso e mescolato in Europa, di cui fanno parte 30 milioni di persone: circa il 10% dell’intera popolazione vive questo bilico in cui spesso si sente straniero in patria. Non riconosciuto. Tanto che spesso, nonostante si sia nati e cresciuti in un posto, l’invito è sempre il medesimo: “tornatene da dove sei venuto”.
Perché “europeo”, nonostante la storia che passa e le generazioni che la abitano e contribuiscono a scriverla e raccontarla, è sinonimo di “bianco”. Anche in capitali come Parigi, dove i neri li si trova ovunque. Anche se poi finiscono per fare sempre gli stessi mestieri.
In questo viaggio «in economia, nero e indipendente», tra Parigi e Bruxelles, Amsterdam e Berlino, Stoccolma e Mosca, Marsiglia e Lisbona, si entra in contatto con le comunità nere delle capitali, nei sobborghi in cui vivono vite che si inventano, in cui si incontrano tossicodipendenti e senzatetto, spacciatori e musicisti, educatori e “afroqualcosa” che cercano di capire cosa è ciò che manca per definirsi.
Una ricerca che pare non finisca mai, se è possibile che a Parigi, come Pitts racconta per avervi partecipato, esiste un tour per neri, che racconta la storia della comunità nera locale, a sottolineare come questa ricerca di identità è comune e continua ovunque si vada.
Così, dopo aver girato l’Europa, questo ragazzo alla ricerca di sé ritorna al punto di partenza con la consapevolezza che tutto ciò che ha incontrato fa parte di un mosaico di culture che si incastonano tra di loro, creando in ogni paese qualcosa di inedito e diverso, eppure simile. Ha trovato, in ogni posto, «un’Africa che era sia in Europa sia dell’Europa». Alla fine di tutto rimane una sorta di utopia imperfetta.