Shengjin, Albania. Una sottilissima striscia di terra incastrata tra la riva del mare e i piedi delle montagne, costellata da alberghi ora deserti. Ridente località marittima in estate, paese fantasma in inverno. Proprio qui, la mattina del 1° dicembre, si agita sulla spiaggia battuta dal vento una scritta alta 7 metri e lunga 40 composta da teli blu, “NO LAGER”. Le mani di quasi duecento persone stringono la stoffa mentre i droni dall’alto riprendono la scena. È la protesta voluta e organizzata in Albania il 1° e il 2 dicembre dal Network Against Migrant Detention, che unisce attivisti e attiviste da Italia, Albania e Grecia, ma con l’obiettivo di espandersi ad altri paesi. Dal porto di Shengjin alle strade di Tirana, una “nuova unione europea” contro la criminalizzazione della migrazione si è fatta sentire. Una due giorni conclusa lunedì sera, 2 dicembre, per opporsi al Protocollo Rama-Meloni per l’istituzione di hotspot e Cpr gestiti dall’Italia nel territorio del paese balcanico. E, più in generale, per opporsi a tutti i Cpr, in qualsiasi parte dell’Europa e del mondo. Un fronte di persone determinato a lottare per i diritti dei migranti contro un sistema che criminalizza e deporta, prima che il nuovo Patto Europeo sull’Immigrazione e l’Asilo entri in vigore dal 2026. Nigrizia ha seguito la mobilitazione.
In Albania, centri vuoti. Ma è solo una pausa
A chi ironizzava sul senso di andare a protestare di fronte ai centri vuoti, la risposta del Network infatti è chiara: l’accordo è solo sospeso. La Corte di Giustizia europea è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione dei paesi sicuri, alla base delle procedure accelerate di frontiera. La prima udienza sarà il 25 febbraio, poi la sentenza dovrebbe arrivare in sei/otto mesi. Fino ad allora, non ci saranno più deportazioni. Ma si ritiene sia solo questione di tempo. Perché non è in discussione il principio che sta alla base dei Cpr, ovvero la detenzione amministrativa, che consente ai governi di trattenere le persone migranti senza che sia stato commesso un reato penale. E sulla detenzione amministrativa, l’Unione Europea sembra non nutrire alcun dubbio. Tanto da contemplarla persino per i nuclei familiari con bambini.
“Politiche xenofobe sulla nostra pelle. Ora basta”
“In Italia, i nostri padri e le nostre madri erano nelle stesse condizioni di quelle persone che il governo italiano vuole rinchiudere nei centri in Albania”, spiega Oriola Isaku, attivista italo-albanese di Europe Other e tra le organizzatrici della mobilitazione. “Gli albanesi in Italia sono stati il primo esperimento di politiche migratorie xenofobe. Un esperimento che ora trova il suo apice con questo accordo.”
È per questo che quasi duecento persone hanno raggiunto Tirana tra sabato 30 novembre e il primo dicembre, per una due giorni di cortei attraverso i luoghi simbolo del Protocollo.
Shengjin, sede dell’hotspot: “Questi centri sono uno scempio”
Il primo luogo toccato dalla mobilitazione è stato, appunto, il porto di Shengjin, dove è stato costruito l’hotspot per le persone deportate e dove per questo ci si è radunati per realizzare la scritta sulla sabbia. “Questi centri sono uno scempio. E non sono soltanto disumani, ma sono anche una frode ai danni degli italiani e degli albanesi”, è il grido di Francesca Romana D’Antuono, co-presidente di Volt Europa. Pochi passanti contemplano la scena da lontano, ritraendosi alla vista delle fotocamere. La sensazione non è di ostilità, ma di diffidenza. Chiacchierando, alcune attiviste del posto raccontano che lì non sono abituati a tante manifestazioni. E che a Shengjin il Protocollo Rama-Meloni non è stato accolto negativamente, a differenza di Gjader, dove è stato costruito il Cpr.
Gjader: un muro di cemento tra le montagne
Ed è proprio Gjader la seconda tappa, un luogo sperduto in mezzo ai monti dove ora le case degli abitanti della zona non danno più sul verde ma sulla colata di cemento rappresentata dalle mura che circondano l’enorme Cpr, ora vuoto. Un panorama che ricorda altri centri o campi profughi che sono stati sparpagliati per l’Europa negli ultimi anni, spesso costruiti in aree isolate. Questo è vero per il campo di Lipa in Bosnia, ma anche per i campi in Serbia, in Grecia o a Cipro. A differenza che altrove, però, il Cpr di Gjader non è separato solo geograficamente dall’esterno – e infatti nei paraggi ci sono diverse abitazioni – ma fisicamente. Visivamente. La vista dell’interno del campo, a parte la cima di qualche container, è assolutamente preclusa a chi è fuori, che può vedere solo le spesse inferriate che lo circondano. Per qualche secondo, i cancelli si schiudono appena e da dietro le sbarre appaiono di sfuggita le forze dell’ordine italiane, che però non escono. Fuori, a presidiare la manifestazione, c’è la polizia albanese.
Anche a Gjader, sollecitati, i residenti non sembrano gradire tutta questa attenzione mediatica. Alla domanda se vogliono condividere cosa pensino di questo Protocollo, la risposta è un “no” secco da più parti. E qualcuno confida, in via informale, che c’è un timore diffuso di possibili ritorsioni.
Tirana: il corteo lungo i luoghi simbolo del protocollo
A Tirana, il 2 dicembre, il corteo è passato davanti al palazzo del governo, alla sede dei rappresentanti dell’Unione Europea e infine all’ambasciata italiana. Per chi è abituato alle manifestazioni in Italia, un dettaglio che salta all’occhio, in tutte e tre le tappe, è il ruolo delle forze dell’ordine, la cui presenza è scarna, anche di fronte alle sedi istituzionali. Niente tenuta antisommossa, ma solo una manciata di agenti che, con un atteggiamento disteso, monitorano quanto sta accadendo e si preoccupano di gestire il traffico compromesso dal passaggio dei dimostranti. Grazie a un attento lavoro di mediazione fatto dalle realtà albanesi che compongono il Network, non c’è stato nessun momento di tensione, nemmeno quando di fronte all’ambasciata alcuni attivisti prendono il megafono e intimano ai funzionari di uscire e metterci la faccia.
Albania, a lungo paese di emigrazione
“Accordo illegale, resistenza globale!” è il grido che anima la protesta per tutti i due giorni, brandendo cartelli e striscioni che recitano “Stop lager”, “No CPR”. Dal corteo emerge la rabbia anche per quella che viene considerata una pericolosissima deriva neocoloniale, dove l’Albania, un tempo colonia italiana, viene ora di nuovo depredata di parte dei suoi territori per fare gli interessi del governo Meloni. Un paradosso, considerata la lunga storia migratoria albanese, a partire dagli anni Novanta. Secondo i dati Istat di gennaio 2024, con 416mila residenti, quella albanese è la seconda comunità straniera più numerosa in Italia, dopo la comunità rumena. Nel 2022 inoltre, le persone di provenienza albanese sono state le prime per acquisizione di cittadinanza italiana, con più di 38mila nuove cittadinanze. Petrit, un signore incontrato per caso lungo la strada a Tirana che si unisce alla manifestazione, racconta proprio questo. “Per me il problema non sono le persone che vengono qui. Io sono per la libertà di tutti, e se anche qualche rifugiato volesse venire qui in Albania, è il benvenuto. Ma il punto per me è: tutti i miei figli sono emigrati altrove. Penso che il governo, prima di preoccuparsi dell’immigrazione degli altri, dovrebbe pensare a delle politiche per far rimanere qui i suoi giovani”. A parte lui, sono pochi i passanti che si uniscono alla manifestazione. Qualcuno si avvicina, sembra più per curiosità, rimanendo in disparte.
La voce delle seconde generazioni: “è solo la punta dell’iceberg delle politiche razziste italiane”
La testa d’ariete di questa iniziativa, insieme agli attivisti e le attiviste albanesi, è rappresentata proprio da chi la migrazione l’ha vissuta sulla propria pelle o su quella dei genitori. Persone che dopo essere state invisibilizzate e marginalizzate dallo Stato per anni, si riprendono lo spazio che spetta loro portando consapevolezza sulla complessità del fenomeno a cui si sta prendendo parte: non si è lì solo per l’Albania, e non solo per due giorni. “Pensate che noi figli di immigrati non abbiamo consapevolezza politica?” tuona di fronte all’ambasciata italiana Clara Osma, parte di Italiani senza cittadinanza e della realtà albanese Mesdhe. “Come si può pensare di aprire dei Cpr qui in Albania, quando negli stessi Cpr in Italia sono morti cittadini albanesi? Non accetteremo la costruzione di centri tortura in casa nostra, dopo che per 30 anni eravamo noi gli immigrati, gli stupratori, le prostitute.”
La piazza ricorda anche le vittime del Mediterraneo e della Rotta Balcanica, frutto delle stesse politiche di criminalizzazione della migrazione. E chiede verità per Ramy Elgaml, ragazzo di 19 anni morto a Milano nella notte tra il 23 e il 24 novembre, a seguito di un inseguimento da parte delle forze dell’ordine. “Penso che quello che sta succedendo sia parte di un unicum molto grande”, spiega a Nigrizia Ilaria Mohamud Giama, attivista per Faenza Multietnica. “Non si ferma all’accordo di Rama-Meloni ma è parte delle politiche razziste e fasciste, a partire da quello che succede in Italia. Riguarda anche il Ddl sicurezza, i Ddl sicurezza precedenti, le politiche legate alle cittadinanza”.
E per questo, se le deportazioni, presto o tardi, sono destinate a ripartire e il Protocollo Rama-Meloni è solo l’inizio di un nuova linea condivisa ampiamente dall’Unione Europea, per gli attivisti del Network anche la lotta contro la detenzione amministrativa, in ogni angolo dell’Ue, è appena iniziata. Come ricorda Oriola nel suo intervento di fronte all’ambasciata: “Le persone di seconda generazione si stanno facendo sentire. E sono tante. E sono arrabbiate. E vogliono lottare per una vita che ci rappresenti, dopo trent’anni di esclusione”.