Il 22 febbraio è un data importante in Algeria. E non perché il presidente Abdelmadjid Tebboune l’ha decretata “Giornata nazionale della fratellanza e della coesione tra il popolo e il suo esercito per la democrazia”. Ma perché compie 3 anni il movimento sociale Hirak.
Il 22 febbraio 2019, infatti, è iniziato in Algeria un grande movimento di protesta, prima contro la candidatura del presidente Abdelaziz Bouteflika per il suo quinto mandato, poi contro il sistema al potere.
Le mobilitazioni dell’Hirak hanno portato alle dimissioni di Bouteflika, (deceduto poi lo scorso settembre) dopo vent’anni alla guida del suo paese. Ma le contestate elezioni presidenziali, organizzate a fine 2019, non hanno messo fine alle controversie. E la gente ha continuato a scendere nelle strade delle principali città algerine scandendo slogan nei quali si chiedeva un cambiamento totale del sistema per passare a un regime civile invece che militare.
Esiste ancora l’Hirak?
E oggi? Esiste ancora il movimento? Il Covid-19 ha di fatto cancellato le tradizionali marce del venerdì. Si sono fermate a marzo 2020. Dopo quasi un anno di interruzione, nel febbraio 2021 è avvenuto un tentativo di ripresa. Ma queste manifestazioni sono state represse nella capitale Algeri, come in altre città del paese. Lo scorso maggio il governo algerino ha imposto nuove regole. Tutti gli eventi devono ora essere oggetto di una dichiarazione preventiva, sulla quale devono essere specificati in particolare il percorso, gli orari di inizio e di fine, nonché l’identità degli organizzatori.
Continuano solo le proteste della diaspora.
Costituzione tradita
Tebboune, appena eletto, aveva promesso una revisione della Costituzione, con la quale il potere algerino intendeva soddisfare le aspettative di Hirak per la costruzione di una “nuova Algeria”. Tentativo fallito. Il referendum organizzato nel novembre 2020 ha registrato il più basso tasso di partecipazione popolare (23%), e anche le successive elezioni legislative sono state boicottate dalle opposizioni.
Repressione, pandemia e nuove regole hanno spento un po’ la fiamma della protesta. Anche perché molti leader, e non solo loro, sono finiti in carcere e ancora lì giacciono.
Detenuti per le loro idee
Il Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti stima che oggi in Algeria vi siano più di 300 prigionieri di coscienza. Alcuni rimangono in custodia cautelare per molti mesi, in attesa del processo. La Lega algerina per la difesa dei diritti umani ha chiesto il loro rilascio anche pochi giorni fa.
All’inizio di febbraio, Amnesty International ha ricordato che un partito politico (il Partito socialista dei lavoratori, PST) è stato sospeso e che altri due (l’Union per il cambiamento e il progresso, Ucp, e il Rassemblement per la cultura e la democrazia, Rcd) sono minacciati della stessa sorte. Si tratta di tre partiti politici che svolgono un ruolo attivo nell’Hirak.
Inoltre, un leader politico (Fethi Gares, il coordinatore del Movimento democratico e sociale, Mds) è stato condannato a due anni di carcere per essersi espresso contro la repressione.
Amnesty International ritiene che «le autorità algerine vogliano rimanere al potere a tutti i costi e stiano cercando di schiacciare i loro oppositori calpestando i diritti alla libertà di riunione, associazione ed espressione».
Secondo alcuni analisti l’escalation della repressione sta cambiando la natura del regime, che ora sta attuando una metodica repressione dell’Hirak. E se lo fa, è perché sa che le richieste che sta facendo sono ancora vive all’interno della società algerina.