Tra le icone del pantheon panafricanista, appare come un dio minore.
Accanto ai vari Sankara, Lumumba, Mandela etc, la figura di Amilcar Cabral è quella che appare più ingiallita dal tempo. Eppure è stato non solo il più importante leader indipendentista dell’Africa lusofona, ma anche un intellettuale, un agronomo e un poeta.
Perché? C’entra senz’altro la demografia. I paesi per cui si è battuto e per cui è stato ucciso sono la Guinea Bissau e Capo Verde, che, messi insieme, oggi contano poco di più 2,5 milioni di anime. C’entra la lingua: il portoghese è parlato solo in 5 stati sui 54 del continente africano. C’entra la geopolitica: quei paesi si sono ritrovati alla periferia degli equilibri internazionali. Ma forse c’entra anche il pensiero di Cabral. Che era troppo intriso di marxismo e pratica rivoluzionaria per godere della stessa beatificazione riservata ai suoi colleghi di Pantheon.
Perché parlare di bombe e guerriglia significa sempre andare su un tema scivoloso, che mal si concilia con la creazione di un’icona pop. La memoria è selettiva, si sa. Quella storica, lo è ancor di più. E in tempi di post-guerra fredda, il pacifismo tira di più. Come dimostra il caso di Nelson Mandela. Il compianto leader sudafricano merita di essere un’icona mondiale. Ma nella sua immagine mainstream appare come una sorta di alfiere della non-violenza, in cui le sue credenziali da marxista, rivoluzionario e bombarolo sono state rimosse.
É come se l’essere un padre dell’indipendenza desse diritto ad una statua nel Pantheon africanista, con tanto di ramoscello d’ulivo in una mano e un kalashnikov nell’altra. Ma, in tempi di post-guerra fredda, per garantirsi le preghiere in saecula saeculorum, si sa quale mano nascondere ai fedeli.
Oggi, a 50 anni dal suo assassinio, ri-pubblichiamo una parte del dossier apparso su Nigrizia, in occasione dell’allora 10° anniversario della morte di Cabral. Non lo facciamo per il valore nostalgico del gesto. Ma perché lo scritto, firmato dal missionario Lino Bicari, tratteggia il pensiero di Cabral in modo molto più puntuale di quanto facciano tanti articoli recenti. Si parla di tribunali popolari, masse contadine, classe piccolo-borghese. Termini oggi desueti, ma che rappresentavano le categorie di pensiero che hanno contribuito a rendere Cabral quel che era.
Buona lettura.
Il dopo Cabral – E la base?
(Estratto di un articolo di Lino Bicari apparso nel numero del marzo 1983 di Nigrizia)
La realtà socio-economica-culturale della Guinea Bissau durante il periodo coloniale ha trovato nel più famoso dei figli di questa terra africana, Amilcar Cabral, il suo interprete più acuto e obiettivo. Egli concepì e sviluppò un progetto di liberazione nazionale che, se sul piano delle scelte ideologiche fondamentali è debitore del marxismo, sul piano strategico e tattico conserva caratteristiche originali e specifiche tali da imporsi come fonte di ispirazione per i movimenti rivoluzionari di liberazione politica, economica e culturale sia in Africa che nel Terzo Mondo in genere.
Il lungo periodo (undici anni) di lotta armata di liberazione nazionale contro il colonialismo portoghese non era per Amilcar Cabral che una fase della rivoluzione e un momento del lungo cammino di liberazione globale della società e dell’uomo guineano. Fino al momento della liberazione politica questa società si trovava ad uno stadio precapitalistico dove il capitale interno era praticamente inesistente o in mano al colono straniero; i mezzi di produzione dell’unico settore veramente produttivo erano rudimentali e proprietà della famiglia contadina; l’unica «natura«» sfruttata era la terra che produceva un minimo sufficiente per la sussistenza di chi la lavorava.
Una via diversa
Con questa realtà economica e per l’inesistenza di una borghesia nazionale capitalistica sarebbe stato possibile, secondo Amilcar Cabral, incamminarsi su un tipo di sviluppo diverso da quello realizzato dagli attuali paesi ricchi e da quello perseguito anche dai paesi del Terzo Mondo in genere. Questo cammino diverso è l’unico che possa permettere uno sviluppo indipendente ad un paese povero, tecnologicamente a zero e devastato da una lunga guerra.
Ecco come iniziò e come si doveva percorrere questo cammino. Una frazione della piccola borghesia burocratica nazionale, per lo più di origine capoverdiane e meticcia, con a capo Amilcar Cabral, iniziava il movimento di liberazione nazionale (1956) e la lotta armata di liberazione (1963) che si concludeva vittoriosamente (1974) con l’apporto decisivo di una larga parte della massa contadina che costituisce ancora oggi il 90% della popolazione del paese.
Con l’indipendenza, la frazione rivoluzionaria piccolo-borghese che aveva integrato alcuni comandanti della guerriglia di estrazione contadina e sottoproletaria, assumeva il potere politico reale, si incontrava nuovamente e si riaccordava con il grosso della piccola borghesia che aveva servito il potere coloniale fino all’ultimo giorno e che ora accettava opportunisticamente la gestione del nuovo stato indipendente che voleva essere un nuovo stato rivoluzionario.
Suicidio della classe piccolo-borghese
Amilcar Cabral prevedeva tutto questo, vedeva tuttavia possibile ed auspicabile il «suicidio» della classe piccolo-borghese a favore dello sviluppo della grandissima maggioranza contadina. Alcuni videro in questo auspicio il sogno ingenuo di un piccolo borghese, ma Cabral non era tanto ingenuo da credere al «suicidio» spontaneo di una classe; per questo indicava come condizione imprescindibile del «suicidio» una nuova struttura di stato che col tempo, avrebbe permesso o «obbligato» la piccola borghesia a «suicidarsi» come classe e ad integrarsi nel processo di sviluppo che ha come soggetto e come oggetto la maggioranza contadina.
Potremmo riassumere in tre affermazioni la visione e la previsione che Cabral aveva del futuro stato rivoluzionario della Guinea Bissau.
Innanzitutto, «Bissau non dovrà essere la capitale della Guinea indipendente e, forse, la Guinea non avrà neppure bisogno di una capitale dove si concentri tutto l’apparato dello stato«».
In secondo luogo, egli sosteneva la necessità di continuare a sviluppare lo stato rivoluzionario iniziato nelle campagne e nelle foreste durante la lotta armata di liberazione, consegnando il potere reale ai comitati di base dei villaggi e delle zone, ai tribunali popolari, ai magazzini del popolo, alle organizzazioni di massa, ecc.
Infine, egli desiderava sparpagliare per il paese i diversi ministeri statali, espressione di un potere centrale che deve essere obbligato a tenere un continuo contatto con le masse contadine e con le espressioni del loro potere: comitati, tribunali, ecc. I ministeri dovevano «sentire il polso», «ascoltare la voce» della base, funzionare come coordinatori fra le diverse comunità di base, fra la comunità nazionale e l’estero e come uno dei due poli (l’altro essendo le masse popolari) del confronto dialettico che ha come oggetto e obiettivo il progresso nazionale.
In questo modo, si sarebbe non solo permesso, ma accelerato il processo rivoluzionario, che in breve anche se gradualmente, avrebbe portato alla morte il vecchio stato coloniale borghese, al «suicidio» la piccola borghesia burocratica e, simultaneamente, alla solidificazione di un potere veramente popolare e contadino che era già nato e si era già sviluppato in vaste zone del territorio nazionale durante la lotta armata.
Cabral moriva assassinato il 20 gennaio 1973, un anno prima dell’indipendenza totale del paese: purtroppo il gruppo dirigente del Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e Capo e Capo Verde (PAIGC) e del nuovo stato non avrebbe rispettato il testamento di Amilcar riassunto nei tre punti esposti sopra.
Fu per incapacità? Per bisogno di relax dopo i lunghi undici anni di lotta? Per corruzione provocata dall’esterno? Per convinzioni politiche divergenti da quelle di Cabral? Difficile dirlo; fu forse per un po’ di tutto questo.
Quello che è certo è che nessun dirigente ha dimostrato di avere nel popolo più semplice ed «ignorante» quella estrema fiducia che Amilcar Cabral aveva.