L’Angola ha annunciato il suo ritiro dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) a partire da gennaio nell’ambito di una disputa sulla riduzione delle quote di produzione, una mossa annunciata a novembre da diversi stati membri ma rifiutata da Luanda. Il paese africano, secondo maggior produttore dell’Africa subsahariana dopo la Nigeria e 17esimo al mondo, è il quarto esponente a lasciare l’organizzazione in meno di otto anni.
La decisione del governo del presidente Joao Lourenço, riferisce il quotidiano Jornal de Angola, è stata resa nota dal ministro delle Risorse minerarie, del Petrolio e del Gas Diamantino Azevedo al termine di una sessione straordinaria del consiglio dei ministri. Il dirigente ha affermato che se il paese rimanesse nell’OPEC «sarebbe costretto a tagliare la produzione, e questo va contro» la sua politica di «evitare il declino e di rispettare i contratti». Azevedo ha suggellato la decisione dell’esecutivo sostenendo che l’Angola «ha deciso di andarsene perché non ottiene nessun guadagno» dalla sua permanenza nell’organizzazione.
Il paese africano era entrato nell’OPEC nel 2007. L’organizzazione è stata fondata in Iraq nel 1960 da Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela e consta oggi, senza Luanda, di 12 stati membri, che diventano 23 nella versione più estesa nota come OPEC+, che include anche la Russia e che da gennaio vedrà anche la partecipazione del Brasile.
La disputa (e il ruolo emiratino)
L’addio dell’Angola, per quanto «sorprendente» a detta di alcuni analisti di settore sentiti dalla stampa internazionale, è stato preceduto da mesi di tensioni, come ricostruisce il portale Bloomberg. Dopo lunghi negoziati, a luglio l’OPEC+ ha messo fine a mesi e mesi di tensioni consentendo agli Emirati Arabi Uniti di aumentare la sua produzione per il 2024.
Ad Angola e Nigeria, due paesi che non riescono in genere a raggiungere le soglie delle quote di produzione che gli vengono accordate, è stato chiesto di cedere le quote non impiegate e quindi di diminuire il numero di barili estratti ogni giorno. Il tema è stato al centro di un riunione che si è svolta a fine novembre e che era stata posticipata di qualche giorno proprio a cause delle proteste dei paesi africani.
La disputa con Abuja si è risolta con un accordo, inferiore alle aspettative nigeriane ma superiore alle soglie inizialmente previste. Lo scontro con l’Angola si è invece intensificato. Dopo una verifica di consulenti esterni, al paese è stato chiesto di ridurre ulteriormente la produzione, passando dagli 1,18 milioni di barili giornalieri inizialmente previsti a 1,1 milioni. Una prospettiva questa, rifiutata da Luanda.
I tagli, definiti come volontari dall’OPEC, rientrano in una strategia che mira a stabilizzare il mercato e a sostenere il prezzo del petrolio, in calo costante da diversi mesi. Questa politica prova anche a far fronte al grosso aumento di produzione fatto registrare dagli Stati Uniti, che non fa parte dell’organizzazione. In totale, a partire da aprile, sei paesi dell’OPEC hanno ridotto la loro produzione di 2,2 milioni di barili al giorno.
L’OPEC senza Luanda
Senza l’Angola, paese in cui hanno investito giganti del settore dell’energia come la francese Total e le statunitensi Exxon e Chevron, l’organizzazione scende a 27 milioni di barili di greggio estratti al giorno, circa il 30% del totale mondiale. L’annuncio del governo angolano ha provocato un calo del 2,4% nel costo del petrolio, che è poi però rimbalzato, fermandosi a 79 dollari al barile, in linea con le medie registrate quest’anno. Dal punto di vista economico, è probabile che questo piccolo shock sia già il più rovinoso degli effetti della decisione angolana.
Luanda, infatti, non rappresenta un attore di grande peso. La produzione di greggio del paese è diminuita del 40% dal picco di 1,9 milioni di barili al giorno toccato nel 2008. Nonostante il contrasto al calo nella produzione degli idrocarburi sia uno degli obiettivi del programma di sviluppo per il 2023-2027 approvato dall’Angola a settembre, non sono molti gli analisti che scommettono su una crescita del settore. Pesa, fra i diversi fattori, anche la difficoltà dei paesi africani ad attirare investimenti in comparti che si pongono al di fuori del contesto della transizione energetica promossa da buona parte della comunità internazionale.
Le ultime fuoriuscite dall’OPEC inoltre – l’Indonesia nel 2016, il Qatar nel 2019 e l’Ecuador nel 2020 – non hanno prodotto strascichi significativi.
Secondo un’analisi apparsa sempre su Bloomberg però, la mossa di Luanda farebbe ulteriore luce su un malcontento riguardo la leadership saudita diffuso nell’organizzazione. A Riyad verrebbe contestata la politica di aumento dei costi al barile, che spinge a diminuire sempre di più la produzione. E intanto, come in parte dimostrato anche dal caso angolano, a crescere è il peso specifico di Abu Dhabi.