L'appello ai negoziatori africani: alla COP29 fate pagare chi inquina
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Messaggio di Greenpeace Africa e altre organizzazioni: nord globale tassi le emissioni e prenda i fondi da lì
L’appello ai negoziatori africani: alla COP29 fate pagare chi inquina
Mancano meno di due mesi alla Conferenza sul clima di Baku. Sarà decisiva in fatto di risorse finanziare
23 Settembre 2024
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 5 minuti
Crediti European Union, 2022 (photographer: Silvya Bolliger)

I paesi del Sud Globale hanno bisogno di fondi per affrontare la crisi climatica e ne hanno bisogno adesso. Le risorse necessarie a questo scopo ci sono già, e ad avercele sono le stesse aziende e gli stessi stati che più di tutti hanno contribuito a creare la crisi in questione.

Parte da qui l’appello che Greenpeace Africa e altre organizzazioni ambientaliste del continente hanno lanciato ai negoziatori africani che prenderanno parte alla prossima COP29 in programma a novembre a Baku, in Azerbaigian.

L’appello delle organizzazioni ambientaliste arriva mentre gli effetti dell’aumentare dei fenomeni climatici estremi si fa sentire in tutta il continente africano: un’ondata di inondazioni sferza da settimane diversi paesi dell’Africa occidentale e centrale.

Secondo l’UNICEF, le forti piogge hanno distrutto 300mila abitazioni e colpito quattro milioni di persone in una fascia che va dalla Liberia e arriva a est fino al Ciad. Altre aree del continente sono nel frattempo interessate da una forte siccità. Indotta dal El Niño, ma peggiorata nei suoi effetti dalla crisi climatica, la mancanza di piogge ha spinto i governi di Zambia, Zimbabwe, Malawi e Namibia a dichiarare uno stato di emergenza nazionale mentre le persone colpite in Africa australe sono quasi 70 milioni.

La Finance COP
In un contesto del genere, la Conferenza di Baku si presenta come la più decisiva degli ultimi anni. Ma a renderla tale non è solo l’evidente peggioramento della situazione globale, ma anche il fatto che nel Caucaso, finalmente, si parlerà soprattutto di soldi, al punto che il summit si è già guadagnato il soprannome di Finance COP, la COP finanziaria.

In ballo c’è infatti la ridefinizione del New Collective Quantified Goal (NCQG), ovvero l’ammontare complessivo di fondi pubblici che i paesi più economicamente sviluppati si impegnano a mobilitare ogni anno per sostenere quelli a basso e medio reddito negli sforzi di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.

Fino a oggi si è voluto mettere a disposizione 100 miliardi di dollari. Questa cifra è stata decisa nel 2009 ed è stata raggiunta per la prima volta nel 2022, con due anni di ritardo rispetto alla tabella di marcia stabilita 13 anni prima

Un gap grande quanto la crisi 
Adesso ci si riaggiorna, e la posta in gioco è enorme. Come ricorda la stessa Greenpeace e le altre realtà promotrici dell’appello, «i finanziamenti per il clima sono fondamentali per consentire all’Africa di mitigare e adattarsi agli impatti sempre più costosi dei cambiamenti climatici e per garantire che il suo futuro percorso di sviluppo sia coerente con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5 °C», come stabilito negli Accordi di Parigi sul cima del 2015, attuale caposaldo dell’impegno globale nell’affrontare la crisi climatica.

Ma a fare di quello di Baku un appuntamento molto atteso è anche l’entità dell’attuale divario fra fondi promessi e fondi necessari. Secondo il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), Simon Stiell, i paesi in via di sviluppo necessitano di oltre 2mila miliardi di dollari all’anno per potersi affrancare dalle fonti fossili e puntare sulle rinnovabili e per riprendersi dagli shock prodotti dalla crisi climatica.

Secondo l’Adaption Gap report dell’ONU, solo per le politiche di adattamento il divario fra risorse impegnate e risorse effettivamente necessarie è compreso fra i 198 e i 366 miliardi di dollari all’anno.

Da questo quadro quindi, le richieste che Greenpeace ha avanzato al team di negoziatori africani alla COP29, presieduto dal diplomatico kenyano Ali Mohamed. L’appello parte dalla necessità di arrivare a un «aumento significativo dei finanziamenti pubblici internazionali per il clima», nell’ottica di «far pagare chi inquina».

Una strada, quest’ultima, che orienta tutta l’architettura multilaterale di contrasto ai cambiamenti climatici secondo il principio delle «responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità». L’Africa, per intendersi, è a oggi responsabile di meno del 10% delle emissioni di gas climalteranti ma è al contempo una delle regioni più colpite da questa crisi nonché una delle meno in grado di farvi fronte.

Le richieste degli attivisti potrebbero trovare un terreno più accogliente del previsto. A una recente riunione ministeriale africana sul clima che si è tenuta in Costa d’Avorio, Mohamed ha affermato che l’intenzione dei negoziatori è quella di chiedere ai paesi ricchi di portare  il NCQG a 1.300 miliardi di dollari. 

Tassare gli inquinatori

Greenpeace nel suo appello propone inoltre di spingere affinchè i paesi ricchi introducano una «tassa sui danni climatici che potrebbe generare 900 miliardi di dollari entro il 2030 (a partire dal 2024 con un’aliquota iniziale bassa di 5 dollari per tonnellata di CO2e, che aumenta di 5 dollari per tonnellata ogni anno) per la finanza climatica».

Si continuerà a “estrarre” dall’industria fossile insomma, ma stavolta per generare i fondi necessari per sostenere la transizione verso le rinnovabili, a oggi economicamente molto impegnativa per i paesi del sud globale, e per difendersi e fare i conti con gli eventi estremi che la crisi climatica sta già provocando.

Nell’appello, si specifica inoltre che «i crediti e le compensazioni di carbonio non possono essere considerati come finanziamenti per il clima mobilitati dai paesi ricchi nell’ambito dell’NCQG». Un riferimento questo, a un modello che sta già provocando molte polemiche. Il meccanismo è ritenuto inefficace e dannoso.

I progetti che mobilita il sistema delle compensazioni rischiano infatti di creare nuovi danni alle comunità  e agli ecosistemi del Sud globale, visto per l’ennesima volta come un territorio principalmente da sfruttare. 

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