5,45 miliardi di dollari. È il costo economico delle interruzioni forzate di Internet operate dai governi nel 2021 nel mondo. Un trend in aumento del 36% rispetto al 2020. Gli shutdown più considerevoli – 50 in totale – hanno interessato 21 paesi per un totale di 30.179 ore. In totale, 486,2 milioni di persone nel corso dell’anno appena trascorso hanno subìto interruzioni deliberate di Internet, con un aumento dell’80% rispetto all’anno precedente.
Nei paesi dell’Africa subsahariana la perdita economica è stata pari a 1,93 miliardi di dollari. Molti regimi si sono appunto distinti per l’“abitudine” a silenziare il dissenso non solo con le solite, aggressive contromisure adottate durante (e in seguito) alle manifestazioni di piazza della società civile, ma agendo attraverso la repressione della rete e dei social media.
I dati – e le riflessioni su tali manovre antidemocratiche e ormai assai diffuse come espressione di governi autoritari – sono stati raccolti nel report The Global Cost of Internet Shutdowns.
Le interruzioni del normale accesso a Internet sono di diversa natura, con il blackout totale ordinato dai governi che è quello più difficile da aggirare. La chiusura dei social media invece può in genere essere aggirata utilizzando una rete privata virtuale (Vpn). C’è poi il throttling dove la velocità di connessione è ridotta a 2G e quindi consente solo l’utilizzo di sms e chiamate vocali.
Dall’analisi risulta che è Twitter la piattaforma social più bloccata. Conta, infatti, 12.379 ore di interruzione deliberata, oltre il 60% in più rispetto a Facebook. Notevole l’impatto di tali misure sui diritti umani. Secondo gli analisti il 75% delle limitazioni e blocchi nell’uso della rete da parte dei governi sono associati a ulteriori violazioni dei diritti umani.
Inoltre, il 69% del totale delle interruzioni di Internet sono state associate a restrizioni alla libertà di riunione, il 29% a interferenze elettorali e un altro 29% a violazioni della libertà di stampa.
A livello mondiale il paese più colpito nel 2021 da tale forma di controllo sociale operata dai governi è stato il Myanmar (2,8 miliardi di dollari persi), seguito dalla Nigeria (1,45 miliardi di dollari) e dall’India (583 milioni di dollari).
Nel caso della Nigeria, sono stati 144 milioni (su una popolazione di oltre 206 milioni di persone) gli utenti Internet che hanno dovuto fare i conti con le restrizioni. In totale 5.040 ore di bavaglio. La situazione più estrema quella di giugno, quando il governo ha bloccato l’accesso a Twitter, inizialmente a tempo indefinito, immediatamente dopo che il presidente Muhammadu Buhari si era visto rimuovere dalla stessa piattaforma un tweet che violava le regole del social media. Buhari ci era andato un po’ duro con i secessionisti annunciando per loro serie punizioni. Il riferimento era alla guerra civile, o guerra del Biafra, degli anni Settanta.
A ottobre, il governo nigeriano aveva annunciato che l’accesso a Twitter sarebbe stato ripristinato dopo 122 giorni, a condizione che la piattaforma fosse utilizzata per business e “cose positive”. Ma solo pochi giorni fa è stato infine annunciato il ritorno alla normalità. Dopo sette mesi di blocco, i nigeriani hanno potuto ricominciare a twittare. Nel frattempo, però, la domanda di servizi di reti private virtuali (Vpn) è aumentata vertiginosamente, del 1,409%.
Altro paese africano dove la censura di Internet è un’arma politica assai comune è l’Etiopia – che lo scorso agosto ha annunciato lo sviluppo di sue piattaforme social -, dove Internet è stato chiuso per 8.760 ore (pari a un intero anno) al costo di 164,5 milioni di dollari. Secondo il rapporto, il blocco della rete sarebbe stato usato come vera e propria arma per limitare le comunicazioni nella regione del Tigray già dall’inizio della feroce guerra civile che sta devastando il paese da oltre un anno.
Queste misure non hanno però del tutto bloccato le informazioni su quanto sta accadendo e sulle violenze perpetrate in questi mesi. Accessi bloccati in tutto il paese a maggio sia su Facebook, che su Whatsapp e Instagram. Un altro blocco dei social media fu imposto quando si scoprì che erano circolati i test per gli esami scolastici di fine anno. Cosa che era già accaduta nel 2016 e poi nel 2017. Anche in questo paese è considerevolmente aumentata la richiesta di accesso da Vpn, del 5,109%.
Il Sudan segue l’Etiopia con 605 ore (25 giorni) di chiusura. Qui il governo – soprattutto tra ottobre e novembre dello scorso anno, in occasione del golpe militare – si è mosso nella direzione della censura con l’obiettivo di limitare il diritto di riunione e la libertà di stampa. Il rapporto afferma però che la misura adottata dal governo non è riuscita a raggiungere gli obiettivi previsti. “Il blackout di Internet – si legge – non è riuscito a prevenire la diffusione di filmati di personale di sicurezza che deteneva e usava la forza contro manifestanti e giornalisti”.
Nell’Africa meridionale, va citata la chiusura operata durante le proteste anti-monarchia nell’eSwatini del giugno 2021, dove un blackout di Internet di 216 ore è costato al paese circa 2,9 milioni di dollari. Altri importanti paesi africani che hanno perso entrate a causa del blackout di Internet sono il Burkina Faso e l’Uganda. Qui, in particolare, il governo ha imposto il blackout dei social in occasione delle elezioni di gennaio. Operazione ripetuta poi più volte nel corso dell’anno per impedire il diffondersi di notizie sulle repressioni violente delle proteste dei cittadini contro i 35 anni di regime di Museveni.
Chiusure anche nella Repubblica del Congo, sempre in occasione delle presidenziali di marzo che hanno permesso a Denis Sassou N’Guesso di estendere i suoi 37 anni di potere, nonostante le accuse di elezioni poco trasparenti.
Anche in Zambia il blocco della rete è avvenuto in corrispondenza delle elezioni, mentre in Ciad la limitazione temporanea dell’accesso ai social è stata organizzata, dice il rapporto, per evitare che venissero diffuse notizie in merito ai raid nei confronti del candidato dell’opposizione, Yaya Dillo. Altre azioni di chiusura di Internet si sono verificate in Senegal e Sud Sudan.
Aggiornamenti costanti sulle limitazioni imposte all’uso della rete dai governi sono sul sito Pulse Internet Society dove una mappatura mostra in modo evidente quanto sta accadendo nel continente in termini di limitazioni delle libertà legate all’uso di Internet.
In tutti questi paesi si è cercato di arginare le misure di blocco utilizzando il Vpn, Tor o app e accessi alternativi che permettono di violare le restrizioni nascondendo i dati di chi sta navigando. Il calcolo dell’impatto economico di ogni chiusura di Internet avviene attraverso Netblocks e lo strumento Cost of Shutdown – basato tra l’altro su indicatori della Banca mondiale, Itu, Eurostat – della Internet Society.