Rimpatriare. È questo infinito presente che guida le politiche europee in tema migratorio. Con sempre un’unica modalità: l’aumento degli investimenti e la privatizzazione della gestione di quella “detenzione informale o de facto, in cui le persone sono detenute al di fuori del quadro giuridico o attraverso una distorsione delle disposizioni legali esistenti, per brevi periodi di tempo e con lo scopo di deportarle il più velocemente possibile in un altro paese o dall’altra parte del confine”.
A raccontarlo un report, L’affar€ CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti, di Coalizione italiana Libertà diritti civili (CILDI).
Un dossier di 190 pagine in cui si racconta come, solo nel triennio 2021-2023, sono stati previsti 56 milioni di euro per gli appalti che dovrebbero affidare la gestione dei 10 Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) a soggetti privati. Sempre più spesso grandi multinazionali che si occupano di detenzione.
Costi da cui però sono esclusi la manutenzione delle strutture e il personale di polizia. Che fanno quindi comprendere quale business giri attorno alla detenzione amministrativa, una filiera ogni anno sempre più remunerativa che attira la corsa di grandi realtà, sempre le stesse, che riescono a vincere appalti in varie parti d’Italia, spesso dandosi il cambio l’una con l’altra.
Quel che rimane evidente nel tempo è la prassi consolidata che vede oramai stabile la privatizzazione della gestione di questi centri di detenzione senza reato, leciti perché consentiti dalla legge come strumento di contenimento di chi è in attesa di un rimpatrio che, nella maggior parte dei casi, mai avviene. L’unica cosa certa che invece si ottiene è che da questa privazione della libertà personale legalizzata vi siano realtà che traggono profitto. Lucrano. Dando vita a luoghi di detenzione che risultano peggiori degli istituti penitenziari.
Tra Centri e cooperative
Una storia non nuova in Italia, questa della detenzione amministrativa delle persone migranti, introdotta non da un governo delle destre ma dalla ormai nota legge Turco-Napolitano” (legge n.40/1998), che per la prima volta istituì quelli che si chiamavano CPTA, Centri di permanenza temporanea e di assistenza, gestiti inizialmente dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana.
Dopo pochi anni, agli inizi del 2000, i 14 CPTA esistenti sul territorio nazionale, per un totale di 1.400 posti, mettevano in luce numerose criticità, dalle condizioni igienico-sanitarie non soddisfacenti delle strutture alla detenzione di migranti fortemente vulnerabili, dall’inadeguatezza dei servizi di assistenza sanitaria alla mancanza di sostegno e informazione legale alle persone detenute.
Il salto “evolutivo” lo si ha nel 2008, con il governo Berlusconi IV e il cosiddetto Pacchetto sicurezza dell’allora ministro dell’interno Maroni, che potenziò il sistema di detenzione amministrativa, trasformando i CPTA in CIE, Centri di identificazione ed espulsione, e aumentando il tempo di trattenimento in queste strutture fino a 180 giorni, poi portati a 18 mesi nel 2011.
Estromessa la Croce Rossa, inizia la tendenza a minimizzare i costi di gestione di questi Centri e a lasciare spazio nei bandi di gara alle cooperative che propongono delle offerte economicamente più vantaggiose.
Alcune si creano ad hoc per rispondere all’offerta. Il rapporto di CILDI, in quella che chiama “la stagione delle cooperative” sottolinea il nascere delle gestioni diffuse di cui è esemplificativo il consorzio Connecting people onlus, che riesce a ottenere la gestione della maggior parte dei CIE: “dal 2008 sarà alla guida del CIE di Gradisca d’Isonzo e di Brindisi, dal 2011 del Centro di Palazzo San Gervasio; dal 2013 del CIE di Bari”.
Arrivano le multinazionali
Subodorata la possibilità del guadagno, in quei bandi che vengono nominati nel 2017 CPR, iniziano a farsi avanti società e grandi multinazionali che di fatto, in tutta Europa, già gestiscono centri di trattenimento e servizi ausiliari all’interno delle carceri.
Carcere per carcere, perché non iniziare la gestione coatta delle migrazioni? Così tra il 2014-2015 ad avere quasi il monopolio è la multinazionale GEPSA: Roma (2014-2017), Milano (2014-2017), Torino (2015-2022).
Alla Gepsa, dieci anni dopo, si sostituisce la elvetica ORS nel CPR di Macomer (dicembre 2019) e più recentemente di Roma (dicembre 2021) e Torino (febbraio 2022).
A febbraio di quest’anno, nei 10 CPR esistenti in Italia (Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago), che hanno una capienza teorica di circa 1.105 posti, risultavano essere gestori, con una perenne corsa al ribasso, GEPSA e ORS, la società ENGEL s.r.l. e le cooperative Edeco-Ekene e Badia Grande. Alcune di queste già al centro di vicende giudiziarie.
Violazione dei diritti a basso costo
Il report riporta i vari bandi vinti a basso costo. In questi luoghi, dentro a 5 euro ci si riesce a fare entrare tutto: colazione, pranzo e cena.
Ma soprattutto riesce a star dentro una pericolosissima “extraterritorialità giuridica”. Perché sono luoghi di nessuno, in cui si estendono e riducono i termini di trattenimento, avviene in modo strutturale una forma detentiva che priva le persone migranti di qualsiasi tipo di diritto, senza la commissione di alcun reato.
“La privatizzazione riguarda ogni ambito della gestione interna: dall’assistenza sanitaria, ai servizi di informazione normativa e mediazione linguistica”.
Una privatizzazione che il nuovo governo Meloni vuole incrementare, visto che sono stati stanziati nuovi fondi per l’ampliamento del numero dei CPR. Se ne vorrebbe uno in ogni regione italiana.
Con l’obiettivo di incentivare il numero di espulsioni rapide, attraverso uno stanziamento di oltre 5,39 milioni di euro per il 2023.